Renato Guttuso
[…] quali sono gli effetti che il cattolicesimo del passato ha potuto lasciare nel nostro presente, non solo considerando i cattolici praticanti e credenti, ma anche coloro che non lo sono? Perché questa domanda vale sia nell’ipotesi di una Spagna sociologicamente cattolica sia nell’ipotesi di una Spagna che abbia smesso di esserlo. […] che cosa rimane dello spirito cattolico, di un cattolicesimo che ha agito per secoli e secoli in Spagna, in strettissima connessione con l’Impero? […] Considerando la prospettiva del presente saggio filosofico, ciò che ci interessa è indicare, in modo differenziato, gli effetti che nel presente potrebbero attendersi dal nostro passato cattolico, in quanto costituì un’alternativa secolare all’islamismo e al protestantesimo. E non solo costituì, ma lo continua a costituire, dato l’ascesa di un islamismo che oggi copre praticamente il terzo mondo del nostro emisfero: né Covadonga né Lepanto poterono evitare che l’umanità musulmana stesse per iniziare il nostro prossimo millennio con più effettivi personali di quanti ne abbia il mondo cristiano, la cui curva demografica è in calo.
Di fronte all’islamismo, io sottolineerei, come eredità cattolica, la rivendicazione di coloro che sottolineano il ruolo che nell’individuazione personale bisogna attribuire, non tanto all’anima, quanto al corpo (materia signata quantitate: dogma della resurrezione della carne); e, di conseguenza, la rivendicazione della razionalità come caratteristica che implica l’attività del soggetto corporeo operatore (individuale, quindi), cioè il rifiuto di un principio di razionalità soprapersonale, di un Intelletto Agente Universale averroista. E anche il cattolicesimo (più del cristianesimo in generale) rappresenta, attraverso la sua teologia trinitaria, il principio del pluralismo ontologico generale, di fronte al monismo islamico (di stirpe aristotelica, e, attraverso di esso, eleatica). Questo pluralismo, visto dal monismo teologico musulmano, si presentò come un politeismo. Nelle cronache arabe le guerre contro i cristiani fortificati in Asturias erano giustificate come guerre contro i politeisti; e questa opposizione è quella che sta alla base del conflitto tra Elipando, Vescovo di Toledo e difensore di un adozionismo islamizzato, e Beato di Liébana, l’autore dell’Inno a Santiago e difensore del dogma della trinità divina, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Di fronte al protestantesimo si potrebbe sottolineare la diffidenza verso la concezione soggettivista della coscienza (così diffusa, tuttavia, tra i nostri giovani chierici e, in generale, tra tanti giovani obiettori di coscienza), a favore di una concezione oggettiva della coscienza, come coscienza pubblica che deve manifestarsi nell’argomentazione razionale.
Ma, parlando più in generale, oserei indicare due effetti, visibili nel nostro presente, del cattolicesimo spagnolo. In primo luogo il gusto per la teologia scolastica, come alternativa alla teologia mistica (che fu sempre sospetta di eterodossia), e questo sottolineando l’apprezzamento e il rispetto che per la teologia scolastica ebbero anche i grandi mistici spagnoli come San Juan de la Cruz o Santa Teresa. Dal razionalismo inerente alla teologia scolastica si poteva aspettare un’educazione a un tipo di razionalismo il più lontano possibile, sia dal semplice ergotismo di chi lo vede tutto chiaro, sia dalle nebbie mistiche proprie per l’onirica retorica. Un razionalismo teologico che consiste nel sapere che si sta razionalizzando una materia inesauribile (che prende il nome religioso di rivelazione). E in secondo luogo la sorprendente presenza di ispanici, sia in forma di missionari che in forma di guerriglieri o di volontari internazionalisti non governativi e non predatori, che mantengono nel nostro presente lo stesso spirito quijotesco che spinse le grandi ordini cattoliche spagnole, la di Santo Domingo de Guzmán, dal XIII secolo, e la di San Ignacio di Loyola dal XVI secolo.
Infine, se si dovesse ridurre a una formula ciò che può essere la Spagna in quanto piattaforma che ha resistito alla caduta dell’Impero stesso che la conformò, oserei dire quanto segue: che la Spagna non è una mera reliquia del passato, né nemmeno una reliquia, rianimata finalmente come nazione, che ha potuto riconquistare almeno la condizione di membro di numero in un club di nomi canonici. In quanto effetto del suo passato, non si riconoscerebbe come tale in quella forma di essere. Forse perché la Spagna non debba essere definita come un modo di essere caratteristico; ma che piuttosto si dovrebbe tentare la sua definizione come un modo di stare. Un modo di stare che faremmo consistere non tanto in una tendenza a chiudersi o piegarsi su sé stessa (cercando di estrarre la verità dalla sua sostanza o dal suo passato) ma nel guardare costantemente all’esterno, a tutto il mondo, al fine di conoscerlo, assimilarlo, digerirlo o espellere ciò che sia necessario per continuare a mantenere questo suo modo di stare. Un modo di stare che non esclude l’essere in attesa di che si presenti un’occasione qualsiasi di intervenire nel mondo in un modo degno di essere inscritto nella Storia Universale.

Crediti
 Gustavo Bueno
 España
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