Non sono uno scrittore perché la scrittura, così come la pratico io, l’infimo piccolo lavoro che faccio ogni mattina, non è un momento eretto su un piedistallo e che si tiene in piedi a partire dal proprio prestigio. Non ho affatto l’impressione e neppure l’intenzione di fare un’opera. Ho il progetto di dire delle cose.
E non sono neanche un interprete. Voglio dire che non cerco di far apparire cose assolutamente sepolte, celate, dimenticate da secoli o da millenni, né di ritrovare dietro ciò che è stato detto da altri un segreto che volevano nascondere. Non cerco di scoprire un altro senso dissimulato nelle cose o nei discorsi. No, cerco semplicemente di far apparire ciò che è immediatamente presente e allo stesso tempo invisibile. Il mio progetto di discorso è il progetto di un presbite. Vorrei far apparire ciò che è troppo vicino al nostro sguardo perché possiamo vederlo, ciò che sta là, vicinissimo a noi, ma attraverso cui guardiamo per vedere un’altra cosa. Restituire una densità a quell’atmosfera che, tutt’intorno a noi, ci garantisce di vedere le cose lontano da noi, restituire densità e spessore a ciò che non sentiamo come trasparenza: questo è uno dei progetti, dei temi costanti in me. Come pure riuscire a delineare, disegnare, designare quella specie di punto cieco a partire dal quale parliamo e vediamo, riuscire a riafferrare ciò che rende possibile lo sguardo lontano, a definire la prossimità che intorno a noi orienta il campo generale del nostro sguardo e del nostro sapere. Afferrare quell’invisibilità, quell’invisibile del troppo visibile, quella lontananza di ciò che è troppo vicino, quella familiarità sconosciuta è per me l’operazione importante del mio linguaggio e del mio discorso.
Il bel rischio
Conversazione con Claude Bonnefoy
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