Andarsene, crederci, essere vivi
Un anno prima che Karski partisse dalla Polonia per informare il mondo del massacro degli ebrei d’Europa, mia nonna fuggì dal suo villaggio polacco per salvarsi la vita. Si lasciò dietro quattro nonni, la madre, due sorelle, cugini e amici. Aveva vent’anni e sapeva solo quello che sapevano anche tutti gli altri: i nazisti stavano avanzando verso est attraverso la Polonia occupata dai sovietici e sarebbero arrivati nel giro di pochi giorni. Se le chiedevano perché se n’era andata, diceva: «Sentivo di dover fare qualcosa».
La mia bisnonna, a cui avrebbero sparato sul bordo di una fossa comune mentre abbracciava la figliastra, guardò mia nonna impacchettare le sue cose. Non si dissero nulla. Quel silenzio fu il loro ultimo scambio. Sapendo non meno di quello che sapeva sua figlia, lei non sentì di dover fare qualcosa. La sua conoscenza era solo conoscenza.
La sorella minore di mia nonna, a cui avrebbero sparato mentre cercava di barattare un ciondolo con qualcosa da mangiare, quel giorno seguì mia nonna fuori di casa. Si tolse l’unico paio di scarpe che aveva e lo diede a mia nonna. «Sei fortunata ad andartene» disse. Ho sentito raccontare questa storia moltissime volte. Ma da bambino, invece di «You are so lucky to be leaving», io capivo: «You are so lucky to believing – Sei fortunata a crederci».
Forse è solo questione di fortuna. Se le cose fossero state diverse nel periodo in cui mia nonna partì – se fosse stata malata, o se proprio allora si fosse innamorata – magari non avrebbe avuto la fortuna di andarsene. Chi rimase non era affatto meno coraggioso, meno intelligente, meno intraprendente, né aveva meno paura di morire. Solo non credeva che stesse per succedere qualcosa di così diverso da quello che era già capitato tante altre volte. Non si può credere per un atto di volontà. E non si può costringere nessuno a credere, neppure con i ragionamenti più stringenti, vigorosi o virtuosi, neppure con prove inconfutabili. Come dice il regista Claude Lanzmann nel prologo a Il rapporto Karski, il suo documentario sulla missione di Karski in America: Che cosa vuol dire sapere? Che cosa può significare l’informazione su un orrore letteralmente inaudito, per il cervello umano, che si trova impreparato ad accettarla perché riguarda un crimine che non ha precedenti nella storia dell’umanità? […] A Raymond Aron, che era fuggito a Londra, fu chiesto se non fosse a conoscenza di quello che stava succedendo all’epoca nell’Est. Rispose: lo sapevo ma non ci credevo, e siccome non ci credevo, non lo sapevo.
A volte fantastico di andare di casa in casa nello shtetl di mia nonna, di stringere tra le mani la faccia di quelli che all’epoca decisero di rimanere e urlare a ciascuno di loro: «Devi fare qualcosa!» Mentre immagino questa scena, mi trovo dentro una casa di cui so che consuma una quantità di energia molto maggiore di quella che mi spetterebbe, una casa che so che rappresenta quello stile di vita vorace che so che sta distruggendo il pianeta. E riesco a immaginare uno dei miei discendenti che fantastica di stringere tra le mani la mia faccia e mi urla: «Devi fare qualcosa!» Ma non riesco a crederci al punto da indurmi a fare qualcosa. Per cui in realtà non so niente.
L’altra mattina, mentre lo accompagnavo a scuola in macchina, mio figlio di dieci anni ha alzato gli occhi dal libro che stava leggendo e ha detto: «We are so lucky to be living – Siamo fortunati a essere vivi».
Una cosa che non so: come conciliare la mia gratitudine per la vita con un comportamento che fa pensare che mi sia indifferente.
Mia nonna andando via di casa prese il cappotto invernale, anche se era giugno.

Crediti
 Jonathan Safran Foer
 Possiamo salvare il mondo prima di cena
  traduzione di Irene Abigail Piccinini
 SchieleArt •   • 



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