Se il progresso è un male così grande, come mai non facciamo nulla per disfarcene senza ulteriori indugi? Ma noi vogliamo il bene? O non siamo piuttosto destinati a non volerlo realmente? Nella nostra perversità, quel che cerchiamo e inseguiamo è il meglio: ricerca nefasta, del tutto contraria alla nostra felicità. Non ci si perfeziona né si progredisce impunemente. Sappiamo bene che il movimento è un’eresia; e proprio per questo ci tenta, ci avventiamo su di esso e, irrimediabilmente depravati, lo preferiamo all’ortodossia della quiete. Eravamo fatti per vegetare, per dispiegarci nell’inerzia, non per perderci nella velocità. (…) Avemmo dovuto, pidocchiosi e sereni, limitarci alla compagna delle bestie, marcire ancora accanto a loro per millenni, respirare l’odore delle stalle piuttosto che quello dei laboratori, morire delle nostre malattie e non dei nostri rimedi, girare attorno al nostro vuoto e sprofondarvi dentro dolcemente. All’assenza, che avrebbe dovuto essere un dovere e un’ossessione, abbiamo sostituito l’evento: ora, ogni evento ci intacca e ci corrode, poiché non si produce se non a scapito del nostro equilibrio e della nostra durata. Più il nostro avvenire si restringe, più ci lasciamo cadere in ciò che ci rovina. La civiltà, che è la nostra droga, ci ha talmente intossicati che il nostro attaccamento ad essa presenta i caratteri di un fenomeno di assuefazione, mescolanza di estasi e di esecrazione.
La civiltà ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non c’è libertà né vita vera senza il tirocinio dello spossessamento. Io mi approprio di un oggetto, me ne considero padrone, in realtà ne sono schiavo, come sono schiavo dello strumento che fabbrico e maneggio. Non c’è nuova acquisizione che non significhi una catena in più, un fattore di potenza che non sia causa di debolezza. (…) Tutto ciò che possediamo o produciamo, tutto ciò che si sovrappone al nostro essere o da esso precede, ci snatura e ci soffoca.
Ancora nessun commento