«Mamma, posso venire al lavoro con te oggi?».
L’avevo pregata finché finalmente non aveva ceduto.
Il bus quel mattino era affollato di ragazzi.
«Ada che nigra chèla lé!», disse uno di loro al suo ingresso, seguito da un coro di risate.
«Che spüssa, raga!», continuarono.
E andarono avanti così fino alla nostra fermata.
Mamma era rimasta in silenzio. Le vidi addosso una vergogna che mai avevo testimoniato fino a quel momento. Per la prima volta realizzai che i ragazzini trattavano lei allo stesso modo in cui trattavano me. E vedere com’erano con lei mi faceva sentire anche peggio.
Una volta scese, il pullman alle spalle, nessuna di noi menzionò l’accaduto.
Mentre mamma puliva, io ne seguii i passi, copiandone i movimenti e disfacendo più che facendo il suo duro lavoro.
La sera, sulla via del ritorno, fummo più fortunate e trovammo due sedili liberi in fondo al bus. Poi il controllore salì a bordo e, ignorando completamente gli altri, puntò dritto verso mia madre.
«Biglietti, prego!».
Sconvolta, mamma cominciò a rovistare nella borsa, con la lingua che le si seccava in bocca mentre i passeggeri si voltavano per assistere alla scena.
«Non li trovo», disse infine, a pezzi.
«Allora sono cinquantamila lire di multa e la prossima volta tu-ricordare-biglietto».
Sottolineò ogni parola come parlando a un poppante.
«Qui siamo in Italia, non in Africa».
Quella multa le costò più di due settimane di salario, guadagnato lavando salotti e sfregando water incrostati di cacca.
Fu quando si svestì, più tardi, che trovò i biglietti persi. Erano rimasti lì tutto quel tempo, nella tasca dei suoi pantaloni.
Non acconsentì mai più che la accompagnassi. E col tempo, smisi di chiederglielo.
Baci razzisti
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