Il desiderio è dell’ordine della produzione e ogni produzione è desiderante e sociale insieme. Noi rimproveriamo alla psicoanalisi di aver schiacciato quest’ordine della produzione, di averlo ripiegato sulla rappresentazione. Lungi dall’essere l’audacia della psicoanalisi, l’idea di rappresentazione inconscia segna fin dall’inizio il suo fallimento o la sua rinuncia: un inconscio che non produce più ma si accontenta di credere.
Bisognerebbe parlare come le ragazzine, al condizionale. Ci saremmo incontrati, sarebbe successo questo… Due anni e mezzo fa ho incontrato Felix. Aveva l’impressione che io fossi più avanti di lui, attendeva qualcosa. In realtà io non avevo né le responsabilità di uno psicoanalista, né le colpe o i condizionamenti di uno psicoanalizzato. Non avevo alcun luogo, questo mi rendeva leggero, e mi sembrava curioso quanto fosse miserabile la psicoanalisi. Ma lavoravo unicamente nei concetti e per di più timidamente. Felix mi parlò di quelle che chiamava le macchine desideranti: tutta una concezione teorica e pratica dell’inconscio-macchina, dell’inconscio schizofrenico. Allora ho avuto io l’impressione che fosse lui in anticipo su di me. Ma col suo inconscio-macchina parlava ancora in termine di struttura di significante, di fallo. Era giocoforza, dato che doveva tanto a Lacan, come me del resto. Ma io mi dicevo che sarebbe andata ancor meglio se si fossero trovati concetti adeguati, invece di servirsi di nozioni che non sono nemmeno quelle del Lacan creatore, ma quelle di un’ortodossia che si è costruita intorno a lui. È Lacan che ha detto: non mi aiutano. Noi lo avremmo aiutato schizofrenicamente. E dobbiamo tanto più a Lacan che abbiamo rinunciato a nozioni come struttura, simbolico, significante, che sono pessime, e che lui, Lacan, ha saputo sempre ribaltare per mostrarne il rovescio.
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