I passi d’uomo, ogni fatica d’uomo erano completamente vani, impotenti; non aveva importanza camminare avanti o indietro o segnare il passo. E succedeva, di tanto in tanto, che uno dei deportati si fermasse di colpo, senza dare voce, senza preavvertire: si verificavano allora scontri, scivoloni, accompagnati dalle proteste e dalle grida soffocate degli altri uomini della catena. Allora anche i soldati si fermavano senza che nessuno dicesse loro di farlo. Il riposo imprevisto e non prescritto si imponeva da solo e bisognava fermarsi almeno dieci minuti. Ma che significato aveva il riposo in un viaggio come quello? Salite e discese si susseguivano come due fasi di uno stesso martirio; la sete aumentava; gli uomini incatenati cadevano e brancolavano come ubriachi, ubriachi di quel dolore interno che bruciava in ognuno di loro. La caduta, la rabbia, il dolore e il profondo, intimo sentimento dell’ingiustizia subita erano tali in ognuno da dar loro a tratti, veramente, l’aspetto di ubriachi, di uomini in delirio. Ogni tanto qualcuno, con un gesto inatteso, si passava la mano sulla faccia, come chi invano cerchi di concentrarsi, di riprendere i sensi e di comprendere quello che gli sta succedendo; oppure pronunciava qualche parola senza significato che, evidentemente, apparteneva a un discorso intimo che per errore attraversava le labbra. di tanto in tanto qualcuno vacillava ed era sul punto di cadere.
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