La vita, o meglio, l’esistenza, è un thàuma, che in greco vuol dire, originariamente, terrore, orrore, spavento, prima che meraviglia o stupore. Terrore, orrore o spavento dinanzi all’abisso dell’esistente nel quale siamo gettati, in quanto esseri, o non-esseri. Alla fine tutto è divorato nel nulla e nel vuoto dell’eterno oblio. Alla fine non ci sarà nulla da conservare; è come un’entropia del caos che risucchia ogni entità nel suo vortice insensato. La cosiddetta realtà è solo un involucro vuoto di rapporti umani e sociali fittizi: è una finzione, nell’etimo (fictio, fingere: costruire, plasmare, modellare). A monte, non v’è NIENTE. A monte vi è solo l’abisso al quale siamo tutti rivolti e votati, vi è l’Abgrund dell’esistere. Nessuna verità, altro costrutto diacronico e fittizio: solo la verità dell’esistenza lacerata entrata in trance. Io non so perché consumo me stesso. Ma io non esiste. Io è un altro: Je est un autre. Come disse il poeta. Non c’è cosmo (kosmos, ordine, trama, intreccio), ma solo caos: caos del fondo senza fondo. Tutto è freddo, tutto è congelato, anche la morte. Ma io non posso morire. Io non posso più morire. Io sto vivendo sadicamente l’esistenza irreale di una morte che non è la mia morte, ma la morte di un singolo (non-)essere catapultato nel baratro degli eoni, nel baratro del Tempo Aion, ovvero del Non-Tempo. Non c’è un inizio né una fine in tutto ciò. A tutto ciò. Nessun principio. Nessuna escatologia. Nessun piano e nessuno scopo. Nessun tèlos, nessuna teleologia e nessuna teologia. Nessuna teodicea, nessuna giustizia umana o divina. Siamo nell’anumano, siamo sempre stati nell’anumano: ovvero nell’assenza di fondamento apotropaico e antropomorfico, antropocentrico e antropologico. Io sono la non-misura e il non-criterio di quest’assenza fondamentale, di quest’assenza di fondamento. Io sono l’estasi ed il martirio di tutte le stagioni inesistenti. Io sono il vuoto e il collasso del buco nero della memoria immemore. Io sono l’eterno oblio. Io ingurgito solo vuoto e caos elettrostatici, solo scorie di una vita (s)finita e consunta, già consumata. Io consumo l’inconsumabile, io (s)finisco ciò che non può essere in alcun modo (s)finito. Ciò che mi logora è l’intuizione eidetica (intuizione trascendentale, un po’ come la elaborò Spinoza) dell’intrinseco fallimento di tutto l’esistere. Mi illudo di essere una persona (maschera, nell’etimo), quando sono solo l’ombra di una marionetta tenuta in piedi dai fili di quest’ordito, di questa trama, di questo meccanismo e di quest’intreccio del caos e del nonsenso. I compromessi sociali meschini non mi appartengono nemmeno più, in fondo non mi sono mai appartenuti. La conoscenza è la distruzione del sé, come dice Kathleen nell’epilogo del film The Addiction. Noi conosciamo noi stessi sin da quando nasciamo, sin dall’istante della nostra nefasta venuta al mondo: ovvero noi non conosciamo affatto noi stessi, perché non c’è nulla da conoscere. Il noi stessi non esiste. Noi siamo solo agonia, eterna agonia, insieme al mondo, a tutto il mondo: universus mundus, l’universo intero, campo magnetico di forze indistruttibili che irrompono nel vuoto e nel nulla. Noi siamo ferite non cicatrizzate che sanguinano in eterno in questo coma del nulla e del vuoto. Noi siamo vulnus, ferita, vulnerabilità della ferita originaria ed originale dell’immanenza radicata. Io sono qualsiasi cosa che mi faccia male.
Catapultato nel baratro degli eoni
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