Manifestarsi, operare, in qualsiasi ambito, è cosa da fanatico più o meno camuffato. Se non ci si ritiene investiti di una missione, esistere è difficile; agire, impossibile.
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Davanti a una tomba le parole gioco, impostura, scherzo, sogno si impongono. Impossibile pensare che esistere sia un fenomeno serio. Certezza di un raggiro in partenza, alla base. Sui frontoni dei cimiteri si dovrebbe incidere. Niente è tragico. Tutto è irreale.
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Lo stesso sentimento di estraneità, di gioco inutile, ovunque io vada: fingo di interessarmi a ciò che mi è indifferente, mi dimeno per automatismo o per carità, senza essere mai partecipe, senza essere mai da nessuna parte. Ciò che mi attira è altrove, e questo altrove non so cosa sia.
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Quando mi capita di essere occupato, non penso un solo istante al senso di alcunché, e ancora meno, è chiaro, di quello che sto facendo. È la prova che il segreto di ogni cosa risiede nell’atto e non nell’astensione, causa funesta della coscienza.
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La conoscenza di sé, la più amara di tutte, è anche quella che viene coltivata di meno: a che serve sorprendersi dal mattino alla sera in flagrante delitto di illusione, risalire senza pietà alla radice di ogni atto, e perdere una causa dopo l’altra davanti al proprio tribunale?
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Che cosa fai dalla mattina alla sera?
Mi subisco.
Causa funesta della coscienza
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