C'è un arte del silenzio?

Chi parla, per esempio il fisico, sa più della nuvola? Oppure il fatto di parlare pone il sapere a un livello superiore in che senso? Supponiamo che quel dio che non parla acquisti la parola. Potrebbe dire: perché volete che parli della nuvola, del lupo e del gallo? Sono quello che sono e sanno fare quello che fanno senza bisogno di parlarne. Per loro è sufficiente il saperlo fare. Se nondimeno volete parlarne, parliamone pure. Non potrete però che limitarvi alle parole e a un sapere di parole. Non chiedetemi poi perché sapete parlare. Quanto a questo, siete come la nuvola, il lupo e il gallo. Prova a mettere la cosa così: chi sta dentro non sta fuori. Più esattamente: non c’è per lui un dentro e un fuori (che ne sa la gallina del fuori della siepe?). C’è quello che c’è e che lui è. Ma chi sta nel linguaggio ecco che vede un dentro e un fuori, cioè una differenza tra la parola e la cosa che la parola dice. Vede la differenza nel suo stare dentro il linguaggio. Sapere fare non è lo stesso che sapere cosa si fa e saper parlare non è il medesimo che sapere di cosa si parla. E ciò in due sensi: che io posso fingere di intendermi della cosa di cui parlo; per esempio di come si fanno le buche per nascondere gli ossi, che invece non ho mai fatto e neppure ho osservato come fanno i cani; oppure che io fingo in generale di sapere a cosa in ultimo allude il linguaggio. Questa però è la finzione cui ricorrono tutti i parlanti, non perché amino mentire, ma semplicemente per poter parlare e intendersi fra loro. Perché mai parlare allora di finzione, obietti tu. Tutti sanno che il linguaggio allude alla realtà. Son solo i matti che confondono le cose e le parole. C’è un’arte del silenzio? È il silenzio un’arte? Indubbiamente è una cosa doppia (ma cosa mai non lo è?): perché il silenzio è l’intorno e l’intervallo. Tutto ciò che c’è, infatti, accade nel silenzio che sta intorno da sempre: e dove se no? Il silenzio è prima di ogni cosa. Però è anche tra le cose: le separa. E così è anche il dopo. Poiché ti dico, ti nomino, ecco che misuro il fatto che prima c’eri e ora non ci sei più. Vedo l’oscillazione fra la tua presenza e la tua assenza e ti assegno così a un perdurare assente che riguarda quando c’eri (passato) e quando ritornerai (il futuro), ma in relazione al presente di questo continuo passare e trapassare in cui tu, e io e ogni cosa, sempre ci siamo e non ci siamo, nella soglia di vuoto che separa il non più e il non ancora.

Crediti
 Carlo Sini
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