Charles Dickens - Il segnalatore
I racconti fantastici di Dickens (1812-1870) sono sparsi nelle piccole riviste di romanzi a puntate e racconti, di cui egli era l’editore e l’autore quasi esclusivo. Così questo che è certamente il suo capolavoro nel genere: The Signal-Man, pubblicato nel 1866 in «All the Year Round». Racconto molto teso e compatto, tutto tra i binari, tutto rumori di treni, tramonti sul desolato paesaggio ferroviario, figure viste in lontananza dalla scarpata. Lo scenario del mondo industriale è entrato nella letteratura: siamo già molto lontani dalle visioni della prima metà del secolo. Il fantastico diventa incubo professionale.
«Ehi! Laggiù!» Quando udì la voce che lo chiamava, egli si trovava davanti alla porta della sua cabina, con una bandierina in mano arrotolata intorno all’asticella.
Considerato il luogo, si sarebbe potuto credere che non dovesse aver dubbi sulla direzione da cui veniva la voce; ma lui, anziché alzare gli occhi verso il punto dov’ero io, su una ripida altura quasi sopra la sua testa, si voltò dall’altra parte e guardò lungo i binari. C’era qualcosa di strano nel modo in cui lo fece, ma che cosa fosse non avrei saputo dirlo. So solo che lo era al punto da attirare la mia attenzione, anche se la sua figura, in quella fossa profonda, mi appariva minuscola e indistinta e se la mia s’ergeva molto al disopra di lui, talmente impregnata dal bagliore di un rabbioso crepuscolo che, per guardare in basso, avevo dovuto farmi schermo con le mani.
«Ehi! Laggiù!» Smise di guardare verso i binari e, voltatosi di nuovo, alzò gli occhi e mi vide in alto sopra di lui.
«C’è un sentiero da cui potrei scendere per parlarle?» Mi guardò senza rispondere e io lo guardai a mia volta, senza incalzarlo col ripetere questa oziosa domanda. Proprio in quel momento, si sentì nella terra e nell’aria una vaga vibrazione, che divenne ben presto una pulsazione violenta, e un’ondata sempre più vicina che mi costrinse a rinculare, come se avesse avuto la forza di trascinarmi giù. Quando poi il vapore, che da quel treno rapido si era alzato sino a me, passò oltre e si allontanò rasente al paesaggio, guardai di nuovo in basso e vidi che l’uomo stava arrotolando la bandierina dopo averla sventolata al passaggio del treno.
Ripetei la mia domanda. Dopo una pausa, durante la quale parve guardarmi con molta attenzione, indicò con l’asticella della bandierina un punto al mio stesso livello, due o trecento metri più in là. Gli gridai: «Ho capito» e mi avviai in quella direzione. A forza di guardarmi attorno, finii col trovare un accidentato sentiero a zig-zag che scendeva quasi a gradini verso i binari; e lo imboccai.
Il sentiero era estremamente ripido e insolitamente disagevole. Era stato ricavato da una pietra viscida che, man mano che scendevo, diventava sempre più umida e limacciosa. Per questo motivo, impiegai a percorrerlo un tempo sufficiente a farmi tornare in mente la strana riluttanza, quasi lo sforzo, con cui me l’aveva indicato.
Quando poi, su quella discesa a serpentina, arrivai abbastanza in basso per poter vederlo di nuovo, stava tra le rotaie su cui poco prima era passato il treno, con l’aria di attendere il mio arrivo. Teneva la mano sinistra sotto il mento e il gomito sinistro appoggiato sul braccio destro posto trasversalmente al petto. Era un tale atteggiamento d’attesa e di cautela che per un attimo mi fermai perplesso.
Ripresi poi a scendere e, mettendo piede al livello dei binari e avvicinandomi a lui, vidi che era un uomo scuro di capelli, con la pelle olivastra, la barba nera e le sopracciglia piuttosto folte. La sua postazione era uno dei luoghi più lugubri e solitari che avessi mai visto. Su entrambi i lati, un gocciolante muro di pietra ruvida escludeva qualsiasi visuale tranne una striscia di cielo; la prospettiva era da una parte un mero tortuoso prolungamento di quella prigione; e nell’altra direzione portava a un triste fanale rosso e all’ancor più triste imbocco di una galleria, la cui massiccia struttura aveva qualcosa di barbaro, di deprimente, di minaccioso. La luce del sole vi penetrava così di rado che tutto era permeato d’un odore di terra morta; e vi irrompeva un vento talmente freddo che mi sentii raggelare come se mi fossi allontanato dal mondo della natura.
Prima ancora che lui si muovesse, mi ero avvicinato al punto che avrei potuto toccarlo. Allora, senza mai staccare gli occhi dai miei, arretrò d’un passo e alzò una mano.
Era una postazione molto solitaria (dissi) ed era stato questo ad attirare la mia attenzione quando l’avevo vista dall’alto. Un visitatore, immaginavo, doveva essere una rarità; ma non sgradevole, speravo. In me doveva vedere soltanto un uomo che era rimasto chiuso per tutta la vita in uno spazio angusto e che ora, finalmente libero, sentiva un nuovo interesse per le grandi opere pubbliche. Fu più o meno questo che gli dissi; ma non sono per niente sicuro delle parole che usai perché, oltre al fatto che non sono mai a mio agio quando devo avviare una conversazione, c’era in quell’uomo qualcosa che mi turbava.
Rivolse un’occhiata davvero molto strana verso il fanale rosso all’imbocco della galleria, e lo scrutò con attenzione come se vi mancasse qualcosa, prima di guardare di nuovo me.
Quel fanale era sotto la sua responsabilità? O no? Rispose a bassa voce: «Non lo sa che lo è?».
Scrutando quegli occhi fissi e quel viso cupo, mi venne la mostruosa idea che non fosse un uomo ma uno spirito. E in seguito mi sono spesso chiesto se non era per caso un malato di mente.
Stavolta fu io a indietreggiare. Ma, mentre lo facevo, scorsi nei suoi occhi una latente paura di me. Bastò a mettere in fuga quell’idea mostruosa.
«Mi sta guardando» dissi, con un sorriso forzato «come se io le facessi paura».
«Non ero sicuro» replicò «se l’avevo già vista».
«Dove?» Indicò con un dito il fanale rosso che stava guardando poco prima.
«Là?» dissi.
Fissandomi con attenzione, rispose di sì (senza però emettere suoni).
«Ma, amico mio, cosa avrei dovuto farci là? E comunque, io là non ci sono mai stato, può esserne certo».
«Sì, credo di sì» replicò. «Anzi, ne sono sicuro».
I suoi modi divennero più disinvolti, come i miei del resto. Rispondeva alle mie domande con prontezza e con parole appropriate. Aveva molto da fare lì? Sì; o meglio, aveva parecchie responsabilità; ma la precisione e la vigilanza erano le sole cose che gli venivano richieste, e di lavoro vero e proprio – di lavoro manuale – non ne aveva quasi niente. Doveva solo cambiare quel segnale, regolare quei fanali e girare ogni tanto quella manovella di ferro. E a proposito di quelle lunghe ore solitarie cui io sembravo dare tanta importanza, poteva solo dire che la routine della sua vita aveva assunto questa forma e che lui ci si era abituato. Quaggiù aveva persino imparato una lingua – ammesso che si possa usare questo termine quando la si conosce solo di vista e si hanno solo idee rudimentali sulla sua pronuncia. Aveva anche lavorato sulle frazioni e sui decimali, e si era occupato un po’ di algebra; ma era, e lo era sempre stato sin da ragazzo, ben poco a suo agio con i numeri.
Doveva per forza, quando era di turno, rimanere sempre in quel canale d’aria umida senza poter mai salire al sole oltre quegli alti muri di pietra? Be’, dipendeva dai momenti e dalle circostanze. In certi casi non c’era molto da fare sulla linea, e lo stesso poteva dirsi per certe ore del giorno e della notte.
Nelle giornate luminose, approfittava di queste occasioni per sollevarsi un poco da queste ombre; ma, poiché rischiava continuamente di essere chiamato con il campanello elettrico e in questi casi doveva tendere l’orecchio con ansia ancor maggiore, il sollievo era minore di quanto io avrei potuto credere.
Mi condusse nella sua baracca, dove c’era un fuoco acceso, un tavolino con un registro su cui doveva fare certe annotazioni, un telegrafo con il suo quadrante e i suoi aghi, e il campanello di cui mi aveva parlato. Ed essendomi io augurato che perdonasse la mia osservazione, ma che doveva aver ricevuto una buona educazione, forse al disopra (speravo di poter dirgli senza offenderlo) di questo suo lavoro, osservò che esempi di lieve incongruenza in questo senso abbondavano a suo parere in tutti i grandi gruppi di uomini; che aveva sentito dire che era così negli ospizi, nella polizia e persino in quell’estrema disperata risorsa che è l’esercito; e che sapeva che era più o meno così nel personale di tutte le maggiori compagnie ferroviarie. Da giovane, era stato (se io potevo crederlo vedendolo seduto in quella baracca; lui a crederlo faceva fatica) uno studioso di filosofia naturale e aveva anche seguito dei corsi; ma poi si era lasciato andare, aveva sciupato le sue possibilità ed era crollato per non più rialzarsi. Non si lamentava di questo.
Aveva avuto quel che si meritava. Ed era troppo tardi per rimediare.
Tutto quello che io ho qui condensato, lo disse in tono pacato, con occhiate tristi e solenni rivolte ora a me e ora al fuoco. Inseriva ogni tanto nel suo discorso la parola signore, specialmente quando raccontava della sua giovinezza: come se volesse farmi capire che non pretendeva d’essere niente di diverso da quello che io vedevo. Fu più volte interrotto dal campanello, che lo costringeva a decifrare messaggi e a mandare risposte. A un certo punto, dovette mettersi sulla porta per sventolare la bandierina al passaggio di un treno e scambiare qualche parola col macchinista. Nell’adempimento di questi suoi compiti mi parve singolarmente preciso e attento, pronto sempre a interrompere il suo discorso anche a metà di una parola e a rimanere in silenzio finché non aveva fatto quel che doveva fare.
Insomma, lo avrei considerato uno degli uomini più fidati cui si potessero assegnare queste funzioni, se non fosse stato per il fatto che mentre parlava con me lo vidi per due volte interrompersi impallidendo, voltarsi verso il campanello che non stava suonando, aprire la porta della baracca (che teneva generalmente chiusa per proteggersi da quella malsana umidità) e volgere lo sguardo verso il fanale rosso all’imbocco della galleria. In entrambi i casi, tornò accanto al fuoco con quell’espressione inspiegabile che già avevo notato, senza essere in grado di definirla, quando eravamo ancora così lontani l’uno dall’altro.
Alzandomi per andarmene, dissi: «Lei mi fa quasi credere di aver conosciuto un uomo soddisfatto».
(Devo ammettere, temo, di averlo detto per provocarlo.) «Una volta probabilmente lo ero» replicò con quella voce sommessa con cui aveva pronunciato le sue prime parole «ma ora sono preoccupato, signore; sono preoccupato».
Potendo, avrebbe ritrattato ciò che aveva detto. Ma lo aveva detto, e io m’affrettai a chiedergli: «Perché? Cosa la preoccupa?» «È molto difficile spiegarlo, signore. Ed è molto molto difficile parlarne. Ma se lei tornerà a trovarmi, cercherò di dirglielo».
«Ma io intendevo già tornare a trovarla. Quando sarà possibile?» «Io smonto domattina presto e sarò di nuovo di turno domani sera alle dieci, signore».
«Verrò alle undici».
Mi ringraziò e mi accompagnò alla porta. «Terrò accesa la mia lampada, signore» disse in quel suo particolare tono sommesso «finché non avrà trovato la strada per salire. Ma quando l’avrà trovata non dica niente. E non dica niente neanche quando sarà di nuovo lassù».
I suoi modi mi facevano apparire il luogo ancora più freddo, ma mi limitai a dire: «D’accordo!».
«E quando tornerà domani sera, non mi chiami. E ora, prima che ci separiamo, posso farle una domanda. Come mai stasera ha gridato: Ehi, laggiù!?» «Lo sa il cielo» dissi. «Ho effettivamente gridato qualcosa del genere…» «Non qualcosa del genere. Sono state queste le parole esatte. Ne sono sicuro».
«Ammettiamolo. Le avrò dette perché avevo visto lei quaggiù».
«E per nessun’altra ragione?» «Quale altra ragione avrei potuto avere?» «Non aveva la sensazione che le fossero state comunicate da qualche forza soprannaturale?» «No».
Mi augurò la buona notte e tenne alzata la sua lampada.
Io mi avviai a piedi costeggiando i binari (con la sgradevolissima sensazione di aver dietro un treno) finché non trovai il sentiero. Era più facile salire che scendere, e potei tornare alla mia locanda senza altre avventure.
Puntuale all’appuntamento, l’indomani posai un piede sul primo gradino del sentiero mentre lontani orologi stavano battendo le undici. Lui mi aspettava in fondo con la lampada in mano. «Non l’ho chiamata» dissi, quando fummo vicini «ma ora posso parlarle?» «Certo, signore».
«Buona sera, allora, ed eccomi qua». Detto questo, procedemmo affiancati sino alla baracca, entrammo, chiudemmo la porta e ci sedemmo davanti al fuoco.
«Ho deciso, signore» cominciò sporgendosi in avanti appena ci fummo seduti e parlando in un tono poco al di sopra di un sussurro «che lei non dovrà chiedermi una seconda volta che cosa mi preoccupa. Ieri l’avevo scambiata per un altro. È questo che mi preoccupa».
«L’essersi sbagliato?» «No. L’altro».
«Chi è?» «Non lo so».
«M’assomiglia?» «Non lo so. Non l’ho mai visto in faccia. Se la copre col braccio sinistro e agita il destro in un cenno di saluto. Un cenno violento. Così».
Seguii l’azione con gli occhi, ed era l’azione di un braccio che gesticolava con estrema passione e veemenza. «Si spieghi, per l’amor del cielo!» «Era una notte di luna» disse l’uomo. «Me ne stavo qui seduto quando udii una voce dire: ‘Ehi, laggiù!?. Sobbalzai, guardai da questa porta, e vidi questo Altro in piedi accanto al fanale rosso all’imbocco della galleria che gesticolava come le ho appena fatto vedere. La voce pareva arrochita a forza d’urlare e gridava: ‘Attento! Attento!’. E poi di nuovo: ‘Ehi, laggiù! Attento!’. Presi la mia lampada, la girai sul rosso e corsi verso la figura, gridando: ‘C’è qualcosa che non va? È successo qualcosa? Dove?’. Stava proprio davanti al buio della galleria. Gli arrivai talmente vicino che cominciai a chiedermi perché si coprisse gli occhi con una manica. Proseguii correndo sino a raggiungerlo e stavo allungando una mano per scoprirgli il volto, quando quella figura scomparve».
«Nella galleria» dissi.
«No. Proseguii correndo nella galleria, per mezzo chilometro. Mi fermai e, sollevando la lampada sopra il capo, vidi delle figure a una certa distanza e le macchie d’umido che scendevano lungo le pareti e gocciolavano entro l’arco.
Corsi fuori di nuovo, più rapido di come ero entrato (avendo una ripugnanza mortale per quel luogo) e guardai tutt’intorno al fanale rosso con la luce rossa, e salii sulla scala di ferro sopra la galleria e di nuovo scesi e tornai qui di corsa. Telegrafai in entrambe le direzioni. Ho avuto un segnale d’allarme.
C’è qualcosa che non va?
La risposta che mi arrivò da entrambe le parti fu: Va tutto bene
». Resistendo al lento tocco di un gelido dito che percorreva la mia spina dorsale, gli spiegai che quella figura poteva essere stata un abbaglio della sua vista e che notoriamente immagini create da disturbi di quei delicatissimi nervi che presiedono alle funzioni dell’occhio avevano spesso preoccupato i pazienti, alcuni dei quali avevano finito per rendersi conto della natura della loro afflizione e l’avevano persino spiegata facendo esperimenti su se stessi. «In quanto al grido immaginario» dissi «provi ad ascoltare il vento in questa valle artificiale mentre noi parliamo così sottovoce, e il suo furioso arpeggiare sui fili del telegrafo». Tutto questo era giustissimo, replicò, dopo di che rimanemmo per un po’ in ascolto, e lui che passava lì così spesso lunghe notti d’inverno ad ascoltare e a guardare, del vento e dei fili doveva sicuramente intendersene. Ma mi fece osservare che non aveva ancora finito il suo racconto.
Gli chiesi scusa e lui, toccandomi un braccio, aggiunse lentamente queste parole: «Meno di sei ore dopo l’Apparizione, ci fu su questa linea un memorabile incidente, e meno di dieci ore dopo i morti e i feriti furono portati fuori della galleria nel punto stesso dove io avevo visto quella figura».
Uno sgradevole brivido mi fece accapponare la pelle, ma mi sforzai di reagire. Si trattava sicuramente, replicai, di una singolare coincidenza, fatta apposta per impressionarlo. Era però indiscutibile che le singolari coincidenze si verificano in continuazione, e che bisogna tenerne conto quando si parla di queste cose. Dovevo però ammettere, aggiunsi (perché mi pareva d’aver capito che stava per farmi questa obiezione), che le persone assennate, nelle normali previsioni sulla vita, delle coincidenze non tengono molto conto.
Mi fece di nuovo presente che non aveva ancora finito. E io di nuovo gli chiesi scusa per averlo interrotto.
«Questo» disse, posandomi di nuovo una mano sul braccio e guardando altrove con occhi vuoti «è successo un anno fa. Poi passarono sei o sette mesi, e io mi ero ormai ripreso dalla sorpresa e dallo choc quando, una mattina, allo spuntar del giorno, stando su quella porta, guardai verso il fanale rosso e vidi di nuovo lo spettro». S’interruppe e mi fissò.
«Le gridò qualcosa?» «No. Rimase zitto».
«Agitò le braccia?» «No. Stava appoggiato a quella fonte di luce, con le due mani sulla faccia. Così».
Ancora una volta seguii con gli occhi la sua azione. Era un’azione di lutto. Ho visto atteggiamenti simili nelle statue di pietra sulle tombe.
«E lei si avvicinò?» «Rientrai qui e mi sedetti, un po’ per riordinare le idee e un po’ perché mi sentivo molto debole. E quando tornai sulla porta, era pieno giorno e lo spettro era sparito».
«E poi non successe niente?» Mi toccò un braccio con l’indice due o tre volte, e ogni volta annuì in modo sinistro.
«Quel giorno stesso, vedendo uscire un treno dalla galleria, notai a un finestrino dalla mia parte un’apparente confusione di mani e di teste, e qualcosa che ondeggiava. Lo notai appena in tempo per segnalare al macchinista di fermarsi. Lui bloccò il vapore e azionò i freni, ma il treno proseguì per altri centocinquanta metri almeno. Corsi a raggiungerlo e correndo udivo urla e grida terribili. Una bella ragazza era morta all’improvviso in uno degli scompartimenti e la portarono qui e l’adagiarono su questo pavimento». Senza volerlo, tirai indietro la sedia e spostai il mio sguardo dalle assi, che lui mi aveva indicato, al suo viso.
«È vero, signore. È vero. È successo proprio come gliel’ho raccontato io».
Non sapevo più cosa dire, in tutti i sensi, e sentivo la bocca completamente arida. Il vento e i fili del telegrafo completarono il suo racconto con un lungo gemito lamentoso.
L’uomo riprese: «E adesso signore, stia bene attento, e capirà perché sono così preoccupato. Lo spettro è tornato una settimana fa. E da allora è stato qui ogni tanto, a intervalli irregolari».
«Sempre davanti al fanale?» «Al fanale che segna pericolo».
«Cosa le sembra che faccia?» Ripeté, se possibile con ancor più passione e veemenza, il gesto precedente che diceva: Per l’amor del cielo, sgombra la strada!.
Poi continuò: «Da allora non ho più pace né riposo. Mi urla, per lunghi minuti di fila: Ehi, laggiù! Attento! Attento!. Mi fa dei segni. Fa suonare il mio campanello…».
A questo punto intervenni. «Lo ha fatto suonare anche ieri sera quando io ero qui e lei è andato alla porta?» «Due volte».
«Be’ lo vede» dissi «come si lascia fuorviare dalla sua immaginazione? Io avevo gli occhi fissi sul campanello e le orecchie pronte a sentirlo, ma quanto è vero che sono vivo, quelle due volte non ha suonato. Come non ha mai suonato in altri momenti, se non per cause precise quando la stazione doveva comunicarle qualcosa».
Lui scosse il capo. «Su questo non ho mai fatto confusioni, signore. Non ho mai scambiato il tintinnio dello spettro con quello prodotto dall’uomo. Quella dello spettro è una strana vibrazione del campanello che non ha altre origini, e non ho mai detto che si muova in modo visibile. Non mi stupisce che lei non lo abbia sentito. Ma l’ho sentito io».
«E quando guardava fuori, le sembrava che ci fosse lo spettro?» «Non mi sembrava: c’era».
«Entrambe le volte?» Ripeté con fermezza: «Entrambe le volte».
«Vorrebbe adesso venire alla porta con me e cercarlo?» Si morsicò il labbro inferiore, come se la cosa non gli garbasse molto, ma finì per alzarsi. Aprii la porta e mi fermai sul gradino, mentre lui stava sulla soglia. C’era il fanale rosso. C’era il lugubre imbocco della galleria. C’erano gli alti e umidi muri di pietra della trincea. E, più in alto, c’erano le stelle.
«Lo vede?» gli domandai, osservando con particolare attenzione il suo viso. I suoi occhi erano tesi e sporgenti; ma forse non molto più di quanto lo fossero stati i miei quando avevo puntato intensamente il mio sguardo nella stessa direzione.
«No» rispose. «Non c’è».
«È vero» dissi. Tornammo dentro, chiudemmo la porta e ci sedemmo di nuovo. Mi stavo chiedendo come sfruttare questo vantaggio, ammesso che si potesse definirlo tale, quando lui riprese a parlare in modo così naturale e con tanta sicurezza del fatto che tra noi non potessero esserci seri motivi di dissenso, da mettermi in una posizione di assoluta debolezza.
«A questo punto» disse «lei, signore, avrà ormai capito che ciò che mi preoccupa è questo: cosa intende dirmi lo spettro?» Non ero sicuro, replicai, di averlo realmente capito.
«Da che cosa mi mette in guardia?» disse tenendo gli occhi fissi sul fuoco e volgendoli verso di me solo ogni tanto. «Qual è il pericolo? Dov’è il pericolo? C’è un pericolo incombente in qualche punto della linea. Sta per succedere una terribile sciagura. Non si può più dubitarne, dopo quello che è accaduto le due volte precedenti. Ma per me è certamente un’ossessione crudele. Cosa posso fare io?» Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò le gocce di sudore dalla fronte.
«Se telegrafassi che c’è pericolo in una delle due direzioni o in entrambe, non potrei indicare una ragione» continuò asciugandosi le mani. «Mi metterei nei guai senza alcun risultato. Mi prenderebbero per matto. Le dico io quel che succederebbe. Messaggio: Pericolo! Attenzione!. Risposta: Quale pericolo? Dove?. Messaggio: Non so. Ma, per l’amor del cielo, attenzione!. Mi licenzierebbero subito. Cos’altro potrebbero fare?» La sua sofferenza mentale era uno spettacolo davvero penoso. Era il tormento di un uomo coscienzioso, oppresso in modo intollerabile da una inintelligibile responsabilità che metteva in gioco delle vite.
«La prima volta che si è presentato sotto il fanale rosso» continuò, scostandosi dalla fronte i capelli scuri e passandosi più e più volte le mani sulle tempie in un gesto di estrema angoscia febbrile «perché non mi ha detto dove ci sarebbe stato l’incidente – se doveva esserci? Perché non mi ha detto come evitarlo – se si poteva evitarlo? E la seconda volta perché, invece di nascondersi il viso, non mi ha detto: Quella donna morirà. Faccia in modo che rimanga a casa? E se in quelle due occasioni è venuto soltanto per mostrarmi che i suoi avvertimenti erano fondati, perché stavolta non ha parlato chiaro? E io, che il cielo mi aiuti! Un povero segnalatore in questo luogo solitario! Perché non va da qualcuno che abbia un prestigio sufficiente per essere creduto e un potere sufficiente per agire?» Vedendolo in quello stato, capii che per il suo bene, oltre che per la sicurezza generale, la cosa che in quel momento dovevo fare era calmargli i nervi.
Perciò, trascurando ogni questione di realtà o d’irrealtà, gli spiegai che chiunque faceva sino in fondo il proprio dovere, agiva comunque bene, e che lui poteva almeno consolarsi pensando che si rendeva perfettamente conto dei propri doveri, anche se non capiva quelle sconcertanti Apparizioni.
Facendo questo, ottenni risultati ben migliori che se avessi tentato di fargli cambiare idea con dei ragionamenti. Cominciò a calmarsi; e col procedere della notte le incombenze proprie del suo lavoro cominciarono a richiedere sempre di più la sua attenzione. Me ne andai alle due del mattino. Mi ero offerto di restare con lui tutta la notte, ma non volle saperne.
Non vedo motivo di nascondere che, arrampicandomi sul sentiero, mi voltai più di una volta a guardare quel fanale rosso, che il fanale rosso non mi piaceva, e che avrei dormito molto male se il mio letto fosse stato posto sotto di esso. Non mi piacevano neanche le vicende dell’incidente e della ragazza morta. Anche questo non vedo motivo di nasconderlo.
Ma ciò che occupava soprattutto i miei pensieri era che mi domandavo come dovevo agire, adesso che avevo ricevuto quelle confidenze. Avevo scoperto che l’uomo era intelligente, attento, meticoloso e preciso; ma per quanto tempo sarebbe rimasto tale in quelle condizioni? Nonostante la sua posizione subordinata, aveva compiti estremamente importanti, e a me (per esempio) sarebbe piaciuto mettere in gioco la vita sull’eventualità che continuasse a svolgerli con precisione? Non potendo sormontare la sensazione che avrei tradito la sua fiducia se avessi informato di ciò che mi aveva raccontato i suoi superiori, senza aver prima parlato chiaramente con lui e avergli proposto una soluzione, decisi infine che mi sarei offerto di accompagnarlo (mantenendo con tutti gli altri il suo segreto, almeno per il momento) dal miglior medico della zona e di ascoltare il suo parere. La sera dopo avrebbe cambiato il suo turno di lavoro, mi aveva detto, e sarebbe smontato un’ora o due dopo l’alba per riprendere subito dopo il tramonto. Avevo stabilito di tornare a quell’ora.
Quella dell’indomani fu una sera incantevole e io uscii presto a piedi per godermela. Non era ancora tramontato il sole quando percorsi il viottolo che costeggiava la parte più alta di quella profonda trincea. Decisi di camminare ancora per un’ora, mezza per andare avanti e mezza per tornare indietro, in attesa del momento di scendere alla baracca del mio segnalatore.
Ma prima di continuare la passeggiata, mi spostai sull’orlo e guardai meccanicamente in basso, da dove lo avevo visto la prima volta. Non sono in grado di descrivere il brivido che sentii quando, vicino all’imbocco della galleria, scorsi la parvenza di un uomo che, coprendosi gli occhi con la manica sinistra, agitava appassionatamente il braccio destro.
L’orrore senza nome che mi prese si dissolse un attimo dopo, perché un attimo dopo vidi che quella parvenza d’uomo era in realtà un uomo, e che a poca distanza c’era un gruppetto di altri uomini, ai quali lui pareva ripetere lo stesso gesto. Il fanale rosso non era ancora stato acceso e contro il suo palo di sostegno era stata eretta una piccola e bassa tenda con supporti di legno e tela cerata, che io non avevo mai visto. Sembrava non più grande di un letto.
Con la sensazione irresistibile che fosse successo qualcosa di brutto – con la lampeggiante paura di aver commesso un errore fatale abbandonando lì quell’uomo senza avvertire nessuno perché venisse a controllare o a correggere ciò che faceva – scesi quello scosceso sentiero alla massima velocità che mi fu possibile.
«Cosa è successo?» domandai agli uomini. «Un segnalatore è rimasto ucciso stamattina, signore».
«Quello che stava in quella baracca?» «Sì, signore».
«L’uomo che io conosco?» «Se lo conosceva, signore, sarà in grado di riconoscerlo» disse l’uomo, che parlava anche a nome degli altri, scoprendosi solennemente il capo e sollevando un lembo della tela cerata «perché il suo viso è rimasto relativamente intatto».
«Ma come è successo? Come è successo?» domandai, rivolgendomi ora all’uno ora all’altro, mentre la tenda veniva richiusa.
«È stato investito da una locomotiva, signore. Non c’era uomo in Inghilterra che conoscesse meglio il suo lavoro. Ma chissà perché non ha badato al binario esterno. Era pieno giorno. Aveva acceso il fanale e teneva in mano la sua lampada. E quando la locomotiva uscì dalla galleria, lui le voltava le spalle e ne è stato investito. Quello era l’uomo che la guidava e ci stava mostrando come è successo. Mostralo anche a questo signore, Tom!» Il macchinista, che indossava una ruvida tuta scura, tornò al posto di prima, all’imbocco della galleria.
«Uscendo dalla curva nella galleria, signore» disse «l’ho visto in fondo come se lo guardassi con un cannocchiale. Non avevo più il tempo di rallentare e sapevo che era un uomo molto prudente. E siccome sembrava non aver sentito il fischio, avvicinandomi lo smorzai e lo misi in guardia gridando con tutte le mie forze».
«Cosa gli ha detto?» «Gli ho detto: Ehi, laggiù! Attento! Attento! Per l’amor del cielo, sgombra la strada!».
Sussultai.
«Oh, è stato un momento terribile, signore. Non smisi mai di gridare. Poi per non vedere mi misi questo braccio davanti agli occhi e agitai quest’altro sino alla fine; ma non servì a niente».
Senza prolungare questo racconto per soffermarmi su qualcuna di queste strane circostanze a scapito di altre, posso concludere notando questa coincidenza: nell’avvertimento del macchinista erano incluse non soltanto le parole che il povero segnalatore mi aveva riferito come quelle che lo ossessionavano, ma anche le parole che io – e non lui – avevo attribuito – e solo mentalmente – ai gesti da lui imitati.

Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  The Signal-Man, 1866
  Il fantastico quotidiano
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     Albert Einstein  

  • La follia è un’invenzione del giudizio che mura i corpi e le menti senza mai toccare la verità
     Michel Foucault    Storia della follia nell’età classica

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