Sapevamo che Perazzetti, dopo avere sposato quella donna dal cane (non tanto per ridere, quanto per guardarsi dal pericolo di prender moglie sul serio) s’era dato da un pezzo, per non so quale connessione, allo studio della filosofia.
Quali effetti un tale studio dovesse produrre in un cervello come il suo, era facile a noi tutti immaginare. Ma ce ne volle lui stesso rappresentare uno, l’altra sera, raccontandoci a suo modo la seguente avventura.
— Ero, — cominciò a dire, guardandosi al solito le unghie, — ero, amici miei, in uno di quei momenti, purtroppo non rari, in cui la ragione (ne ho, per disgrazia, ancora un poco), sicura d’aver raggiunto alla fine quell’«assoluto» che tutti affannosamente, senza saperlo, andiamo cercando nella vita…
— Io, no,
— Io, no,
— Io, no,
lo interrompemmo a coro.
— Bestie, se vi dico senza saperlo! La ragione, del resto, s’accorge a un tratto di tenere vittoriosamente stretto in pugno un codino, capite? invece dell’assoluto; un codino di parrucca, quel tal codino di parrucca, a cui s’aggrappava l’ineffabile barone di Münchausen per tirarsi fuori dello stagno, nel quale era caduto.
Protestammo che, se seguitava a parlare così difficile, non gli avremmo più dato ascolto, e allora Perazzetti ci spiegò, paziente, con gli occhi chiusi e le mani avanti:
— Ecco qua. Prima o poi, il fine che ci siamo proposto, a cui tendono tutti i nostri affetti, tutti i nostri pensieri, e che ha perciò acquistato per noi il valore intrinseco della nostra stessa vita, un valore assoluto, capite?; appena raggiunto, o anche prima d’essere raggiunto, ci si scopre vano.
— Come? perché vano?
— Ma perché ci accorgiamo, santo Dio, che, come questo fine, qualunque altro avremmo potuto proporcene, che sarebbe stato vano lo stesso. Perché l’assoluto, cari miei, quell’assoluto in cui soltanto potrebbe quietarsi il nostro spirito, non si raggiunge mai.
— Ragion per cui è da imbecilli andarlo cercando, — osservò uno di noi.
— Bravo! Quel che dico io, — approvò Perazzetti. — Ma lasciatemi dire, per favore. Ogni principio è difficile; poi viene il bello. Ecco: la vita nostra corre protesa tutta verso quel fine, nel quale s’illude di poter toccare e sentire la propria realtà. Crolla o svanisce quel fine, crolla e svanisce all’improvviso con esso la nostra realtà, o, piuttosto, l’illusione della nostra realtà. E allora (che è, che non è) privi d’un tratto della realtà che c’immaginavamo di poter finalmente toccare, ci vediamo vaneggiare nel vuoto e a ogni canto di strada possiamo veder passare la follia e, come niente, metterci a conversare con essa (che potrebbe anche essere l’ombra del nostro stesso corpo) e domandarle, per esempio, con molta buona grazia e delicatezza: Chi più ombra, o cara, di noi due?
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