Non ci sono parole: ricorre abitualmente questa dichiarazione di impotenza del vocabolario. Chi la pronuncia probabilmente non ha bisogno di conoscere le oltre duecentomila voci elencate in ordine alfabetico. Afferma un pregiudizio e un luogo comune, più che un’insufficienza della lingua.
Da lettore di lunga data mi sono fatto un’idea opposta. Non solo le parole possono esprimere ogni cosa, situazione, sentimento, dal dolore alla meraviglia, ma riescono pure a trasmettere con precisione e a condividere.
Neanche sono d’accordo con la frase che dichiara una immagine superiore a mille parole. L’immagine offre una suggestione che è appunto muta. Davanti a un dipinto posso subire il fascino, provare un’emozione. Ma se qualcuno mi spiega com’è fatto il blu d’oltremare di un affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, mi spiega i personaggi rappresentati, ecco che vedo quello stesso affresco sotto una più alta definizione. Senza quelle parole di accompagnamento la mia visione resta, a mia insaputa, a bassa definizione pure se ho dieci decimi di diottrie.
Nella città rumena di Sighet, che conosco per i recenti viaggi verso l’Ucraina, c’è in una piazza la scultura di un grande chiodo piantato obliquo nel suolo. Lo vedo e mi piace la sua forma che in un primo momento scambio per una grande matita che si poggia su un punto. Mi spiegano che nelle vecchie carte geografiche della Romania il chiodo che l’attaccava al muro, centrava esattamente nel bordo superiore la città di Sighet, perciò ricordata come quella del chiodo.
La spiegazione, a forma di didascalia, mi fa guardare la scultura con più attenzione. La sua storia mi aiuta a vedere.
Le parole: altroché se ci sono.

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