Ciechi ai difetti reciproci
Bello, don Calogero, bello. Ma ciò che supera tutto sono i nostri due ragazzi. Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese a compromettere, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del frack di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l’uno né l’altra erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, di mire segrete; ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui mormorava all’orecchio, dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei corpi destinati a morire.