
36.° Ho presentato nella mia Morale, p. 201 2° ed. 198. una delle basi della compitezza, virtù cardinale presso i Cinesi; l’altra è la seguente. La compitezza è stabilita sopra una convenzione tacita di non osservare gli uni presso gli altri la miseria morale ed intellettuale della condizione umana e di non rinfacciarsela reciprocamente; d’onde risulta che essa appare meno facilmente con vantaggio d’ambo le parti.
Compitezza è prudenza; scortesia dunque è balordaggine; farsi dei nemici senza necessità e senza motivo colla rozzezza è follia: la stessa cosa come se si dessero fuoco alla propria casa. Perocché la cortesia è, come i gettoni, moneta notoriamente falsa: risparmiarla è prova di demenza, usarne con liberalità, di senno. Tutte le nazioni terminano le lettere colla formola: «Votre très-humble serviteur, Your most obedient servant, Suo devotissimo servo»; solo i Tedeschi sopprimono il «Diener» servo, perché non è vero, dicono. Chi invece spinge la compitezza fino al sacrificio d’interessi reali, somiglia all’uomo che desse monete d’oro per gettoni. Nella stessa guisa che la cera dura e fragile per sua natura, diviene per mezzo d’un po’ di calore così malleabile da prendere quella forma qualunque che piacerà darle, così pure si può, con un granellino di cortesia e di amabilità, render pieghevoli e compiacenti perfino uomini burberi ed ostili. La compitezza è dunque per l’uomo ciò che il calore è per la cera. Però davvero è questo un grave compito, nel senso che c’impone testimonianze di stima per tutti, quando la maggior parte della gente non ne merita punto; esige inoltre che abbiamo da fingere il più vivo interesse, quando dovremmo invece starcene beati di non sentirne affatto. Mettere insieme la politezza e la dignità è un colpo da maestro.
Le offese, consistendo sempre alla fin fine in manifestazioni di mancanza di considerazione, non ci metterebbero così facilmente fuori di noi se, da una parte, non nutrissimo una opinione molto esagerata del nostro alto valore e della nostra dignità, ciò che è proprio d’un orgoglio smisurato, e se, d’altra parte, ci rendessimo conto di quello che ordinariamente ognuno, in fondo al cuore, crede e pensa riguardo gli altri. Quale stonante contrasto pertanto tra la suscettibilità della maggior parte degli uomini per la più leggera allusione critica diretta contro di loro, e ciò che i medesimi dovrebbero udire se potessero sorprendere quanto dicono di essi le loro conoscenze! Faremmo ottima cosa ricordandoci sempre che la compitezza non è che una maschera beffarda; in tal modo non ci metteremmo a strillare come pavoni ogni volta che la maschera si sposta un po’, o che viene smessa per un momento. Quando un individuo diventa apertamente villano è la stessa cosa come se si spogliasse delle sue vesti e si mostrasse in puris naturalibus. Certamente apparirebbe molto brutto, come la maggior parte della gente in tale stato.
37.° Non bisogna modellarsi sopra un altro per quello che si vuol fare o non fare, perché le situazioni, le circostanze, le relazioni non sono mai le stesse e perché anche la differenza di carattere dà tutt’altra tinta all’azione; per questo «duo cum faciunt idem, non est idem» quando due persone fanno la stessa cosa, questa tuttavia non risulta la stessa.
Occorre, dopo matura riflessione, dopo seria meditazione, agire conformemente al proprio carattere. L’originalità è dunque indispensabile anche nella vita pratica; senza di essa ciò che si fa non s’accorda con ciò che si è.
38.° Non combattete l’opinione altrui; pensate che se si volesse correggere la gente di tutte le assurdità a cui crede non si avrebbe finito quand’anche si vivesse gli anni di Matusalem.
Asteniamoci inoltre nel conversare da qualunque osservazione critica, quando pure questa fosse fatta nella migliore intenzione, perciocché offendere gli uomini è cosa facile, difficile invece, se non impossibile, correggerli.
Quando in una conversazione le assurdità che sentiamo cominciano a metterci in collera, dobbiamo immaginare d’assistere ad una scena di commedia tra due pazzi: «Probatum est.» L’uomo nato per istruire il mondo sugli argomenti più importanti e più seri può chiamarsi fortunato quando se ne tira sano e salvo.
39.° Chi vuole che la sua opinione trovi credito deve enunciarla freddamente e spassionatamente. Perocché qualunque impeto procede dalla volontà; è dunque a questa, non alla ragione, che è fredda di sua natura, che sarebbero attribuiti i giudizi espressi. Infatti essendo la volontà nell’uomo il principio radicale, ed essendo la ragione solo secondaria e venuta accessoriamente, si considererà il raziocinio come nato dalla volontà eccitata, piuttosto che l’eccitazione della volontà come prodotta dal raziocinio.
40.° Non si deve abbandonarsi a lodare sé stessi, quand’anche se ne avesse tutto il diritto. Imperocché la vanità è cosa tanto comune, e il merito tanto raro, che ogni qual volta sembrerà che ci lodiamo, per quanto indirettamente ciò avvenga, ciascuno scommetterà cento contro uno che per mezzo della nostra bocca ha parlato solo la vanità, perché essa non ha abbastanza buon senso per capire la ridicolaggine della millanteria. Nondimeno Bacone da Verulamio potrebbe non affatto aver torto quando pretende che il «semper aliquid haeret» ne resta sempre qualche cosa non sia vero solamente della calunnia, ma anche della lode di sé, e quando raccomanda quest’ultima a dosi moderate Bacone da Verulamio dice così: «Non è piccola prerogativa di prudenza se alcuno con una certa arte e grazia possa presso gli altri far mostra di sé, col millantare opportunamente le sue virtù, i meriti ed anche la fortuna quando ciò possa esser fatto senza arroganza o fastidio, e all’opposto coll’occultare artificiosamente i vizi, i difetti, gl’infortuni e i disonori; in quelle trattenendosi e volgendole come contro a luce, in questi cercando sotterfugi o purgandoli coll’interpretarli destramente, e altre cose di simil fatta. Così Tacito intorno a Muziano, uomo della sua età prudentissimo e ad operare prontissimo, disse: Di tutte le cose che aveva dette e fatte, con una certa arte vantatore. Questa cosa abbisogna senza dubbio di un qualche artifizio, onde non generi noia o spregio: cosicché, nondimeno, una certa millanteria, benché fino al primo grado della vanità, sia piuttosto vizio in Etica che in Politica. Imperciocché siccome suol dire della calunnia, arditamente calunniando sempre qualche cosa rimane affissa semper aliquid haeret, così possa dirsi della iattanza (se pur non sia stata brutta e ridicola) con audacia va gloriando te stesso, che sempre qualche cosa resta attaccata (semper aliquid haeret). Starà impressa di certo presso il popolo, benché i più savi sorridano. Dunque la stima ottenuta appresso i più compenserà in gran copia il fastidio dei pochi». (De augmentis scientiarum, Lugd. Batav. 1645. L. VIII, C. 2, p.644 e seg.). (Nota dell’Editore tedesco).
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Traduzione Oscar D. Chilesotti
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