Per conseguenza l’amore della solitudine non può esistere come inclinazione primitiva; esso deve nascere come risultato dell’esperienza e della riflessione, e prodursi sempre in rapporto collo sviluppo della forza intellettuale ed in proporzione col progredire degli anni: ne segue che alla fin fine l’istinto sociale d’ogni individuo sarà in rapporto inverso dell’età sua. Il bambino strilla dalla paura e si lamenta non appena è lasciato solo, fosse pure per qualche momento. Per i fanciulli il dover starsene soli è un severo castigo. I giovani si uniscono volentieri fra loro; non v’hanno che quelli dotati d’una natura più nobile e d’uno spirito più elevato che cercano già qualche volta la solitudine; nondimeno passar soli tutta la giornata è loro ancora difficile. Per l’uomo fatto la cosa è facile; ei può rimanere a lungo isolato, e tanto più a lungo quanto più progredisce nella vita. Al vecchio poi, unico sopravvivente delle generazioni sparite, morto da una parte alle gioie della vita, e dall’altra ormai al di sopra di esse, la solitudine è il vero suo elemento. Ma, in ogni individuo considerato separatamente, i progressi dell’inclinazione al ritiro ed all’isolamento saranno sempre in ragione diretta del valore intellettuale. Perocché, come già dicemmo, non è questa un’inclinazione puramente naturale, provocata in modo diretto dalla necessità, è piuttosto solamente l’effetto dell’esperienza acquistata e meditata; vi si arriva soprattutto dopo essersi bene convinti della miserabile condizione morale ed intellettuale della maggior parte degli uomini, e ciò che v’ha di peggio in tale condizione si è che le imperfezioni morali dell’individuo cospirano colle imperfezioni intellettuali e si aiutano a vicenda; si producono allora i fenomeni più schifosi che rendono ripugnante, e fors’anco insopportabile, il commercio colla grande maggioranza degli uomini. Ecco perché, sebbene vi siano tante brutte cose a questo mondo, la società è ancora più brutta: lo stesso Voltaire, francese sociabile, si spinse fino a dire: «La terra è coperta da gente tale che non meriterebbe nemmeno che le si rivolgesse la parola». Il tenero Petrarca, che ha così vivamente e con tanta costanza amato la solitudine, ce ne spiega egualmente il perché:
Cercato ho sempre solitaria vita Le rive il sanno, e le campagne, e i boschi,
Per fuggir quest’ingegni storti e loschi
Che la strada del ciel hanno smarrita.
Ei ci presenta gli stessi motivi nel suo bel libro De vita solitaria, che sembra aver servito di modello a Zimmermann per la celebre opera Della solitudine. Chamfort, co’ suoi modi sarcastici, esprime precisamente questa origine secondaria e indiretta dell’insociabilità quando scrive: «Si dice qualche volta di un uomo che vive solo: Ei non ama la società. Spesso è la stessa cosa come se si dicesse d’un uomo che egli non ama il passeggiare perché non va a spasso volentieri la sera nella foresta di Bondy». Saadi nel Gulistan parla nel medesimo senso: «Da questo momento, prendendo congedo dal mondo, noi abbiamo seguito la via dell’isolamento, perocché la sicurezza sta nella solitudine».
Angelo Silesius, anima dolce e cristiana, dice la stessa cosa nel suo linguaggio speciale e affatto mistico: «Erode è un nemico, Giuseppe è la ragione a cui Dio rivela in sogno in ispirito il pericolo. Il mondo è Betleme, l’Egitto la solitudine: fuggi, anima mia! fuggi, o tu muori di dolore». Egualmente Giordano Bruno: «Tanti uomini che in terra hanno voluto gustare vita celeste, dissero ad una voce: ecce elongevi fugiens et mansi in solitudine»
ecco, m’allontanai fuggendo, e rimasi nella solitudine. Saadi, il persiano, parlando di sé nel Gulistan dice anche: «Stanco degli amici a Damasco mi ritirai nel deserto vicino a Gerusalemme per cercare la società degli animali». In poche parole tutti coloro che Prometeo ha fabbricato colla migliore argilla si sono espressi nello stesso senso. Quali piaceri infatti possono provare questi esseri privilegiati nel commercio con creature colle quali non possono aver relazioni per stabilire una vita in comune se non per mezzo della parte più bassa e più vile della loro natura, vale a dire di tutto ciò che v’ha in essa di volgare, di triviale, d’ignobile? Tali individui ordinarî non potendosi levare all’altezza dei primi, non hanno altra risorsa, come non si prenderanno altro cómpito, se non quello di abbassarli al loro livello. Da questo punto di vista si è davvero un sentimento aristocratico quello che alimenta l’inclinazione all’isolamento ed alla solitudine. Tutti i cialtroni sono tanto sociali da far pietà: in cambio, a ciò solo si vede che un uomo è di qualità più nobile, quando non trova alcun piacere cogli altri, quando alla loro società preferisce ognor più la solitudine, acquistando insensibilmente coll’età la convinzione che salvo rare eccezioni non v’ha scelta nel mondo tra l’isolamento e la volgarità. Per quanto dura sembri, questa massima è stata espressa da Angelo Silesius stesso, ad onta di tutta la sua carità e tenerezza cristiana: «La solitudine è penosa: però non esser volgare, e tu potrai isolarti in qualunque luogo».
Specialmente in quanto concerne gli spiriti eminenti, è ben naturale che questi veri educatori del genere umano provino anche tanta poca inclinazione a mettersi di frequente in rapporto cogli altri, quanta ne può sentire il pedagogo ad unirsi ai giochi rumorosi della schiera di fanciulli che lo contorna. Perocché, nati per guidare gli altri uomini sull’Oceano dei loro errori verso la verità, per trarli dall’abisso della loro rozzezza e della loro volgarità, per innalzarli verso la luce della civilizzazione e del progresso, essi devono, è vero, vivere in mezzo a gente siffatta, ma senza però appartenerle realmente; si sentono quindi fino dalla giovinezza creature sensibilmente differenti; ma in questo riguardo la convinzione ben chiara non giunge loro che insensibilmente a misura che vanno avanti cogli anni; allora hanno cura di aggiungere la distanza fisica alla distanza intellettuale che li separa dal resto degli uomini, e vegliano perché nessuno, a meno che non sia più o meno affrancato dalla volgarità generale, li accosti troppo da vicino.
Da tutto ciò si deduce che l’amore della solitudine non apparisce direttamente ed allo stato d’istinto primitivo, ma che si sviluppa indirettamente e progressivamente specie negli spiriti eminenti, non senza dover vincere l’inclinazione naturale alla socialità, ed anche combattere all’occasione qualche suggerimento mefistofelico: «Cessa dal giocare col tuo cordoglio che, pari ad un avoltoio, ti rode la vita: la più vile compagnia ti fa sentire che sei uomo con gli uomini.»
La solitudine è il retaggio delle menti superiori; qualche volta succederà loro che se ne rammarichino, ma la sceglieranno sempre come il minore dei mali. Col progresso dell’età nondimeno il sapere aude diventa in questo riguardo sempre più facile ed omogeneo; verso la sessantina l’inclinazione alla solitudine arriva ad essere affatto naturale, e quasi istintiva. Infatti tutto si unisce allora per favorirla. Le forze che spingono più gagliardamente alla socialità, cioè l’amor delle donne e l’istinto sessuale, non agiscono più a quel momento; anzi lo sparire del sesso fa nascere nel vecchio una certa capacità di bastare a sé stesso, che a poco a poco assorbe totalmente l’inclinazione alla società. Si è ormai ritornati in sé da mille illusioni e da mille stoltezze; d’ordinario la vita d’azione è cessata; non si ha più cosa alcuna da aspettare, nessun piano o progetto da concepire; la generazione a cui si appartiene realmente non esiste più; attorniati da una razza straniera si è di già oggettivamente ed essenzialmente isolati. Con tutto ciò il cammino del tempo si è accelerato, e lo si vorrebbe inoltre impiegare per l’intelletto. Perocché a quell’ora, ammesso che la testa abbia conservato tutte le sue forze, gli studi d’ogni sorta sono resi più che mai facili ed interessanti dalla grande somma di esperienza e di conoscenze acquistate, dalla meditazione progressivamente più approfondita di qualunque pensiero, come pure dalla maggior attitudine all’esercizio di tutte le facoltà intellettuali. Si vede chiaro in molte cose che altra volta erano in certo modo avviluppate da densa nebbia, si ottiene eccellenti risultati, e si sente interamente la propria superiorità. In seguito alla lunga esperienza si ha cessato dall’aspettarsi gran cosa dagli uomini, poiché, tutto considerato, essi non guadagnano ad esser conosciuti più da vicino; si sa piuttosto che, eccettuata qualche rara probabilità favorevole, non s’incontreranno nella natura umana se non esemplari molto difettosi che è meglio non toccare. Non si è più esposti alle illusioni ordinarie, si vede a colpo d’occhio ciò che un uomo vale, e non si proverà che molto di rado la voglia di entrare in più intimi rapporti con lui. Infine, quando nella vita solitaria si riconosce un’amica d’infanzia, l’abitudine dell’isolamento e del commercio con sé stesso prende piede, e diventa una seconda natura. Perciò l’amor della solitudine, qualità che fino a quel punto bisognava conquistare con la lotta contro l’istinto della socialità; è ormai semplice e naturale; si sta perfettamente bene da soli come il pesce nell’acqua. Ogni uomo superiore, quindi, che ha un’individualità non somigliante all’altrui, e che per conseguenza occupa un posto a parte, si sentirà beato da vecchio in tale posizione interamente isolata, benché abbia potuto trovarsene infastidito durante la sua gioventù.
Certamente ciascuno non possederà la sua parte di questo privilegio reale dell’età se non nella misura delle sue forze intellettuali; si è dunque lo spirito eminente che lo acquisterà prima d’ogni altro, ma ad un grado minore tutti vi arriveranno. Non v’ha che le nature le più povere e le più volgari che saranno nella vecchia età così socievoli come per lo innanzi: esse stanno allora a carico di quella società a cui non sono più adatte; ma tutt’al più arriveranno a farsi tollerare, e non saranno mai cercate come altre volte.
Aforismi sulla saggezza nella vita
Traduzione Oscar D. Chilesotti
Circa la nostra condotta verso noi stessi
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