Circa la nostra condotta verso noi stessi
Si può ancora trovare un lato teleologico in questo rapporto inverso di cui or ora tenemmo parola, tra il numero degli anni e il grado di socialità. Quanto più l’uomo è giovane tanto più ha da imparare ancora in tutte le direzioni; ora la natura non gli ha riservato che quel mutuo insegnamento che ciascheduno riceve dalle relazioni co’ suoi simili, quell’insegnamento reciproco per cui la società umana potrebbe chiamarsi una grande casa d’educazione Bell-Lancasteriana, visto che i libri e le scuole sono istituzioni artificiose, ben lontane dal piano della natura. È molto utile all’uomo il frequentare l’istituto naturale di educazione tanto più assiduamente quanto più è giovane.

«Nihil est ab omni parte beatum»

non v’ha in questa vita beatitudine perfetta, dice Orazio, e «Nessun loto senza stelo» ripete un proverbio indiano; similmente la solitudine a lato di tanti vantaggi ha pure i suoi leggeri inconvenienti e i suoi piccoli fastidi, che però sono minimi riguardo a quelli della società, a tal punto che colui il quale ha un valore proprio, troverà sempre cosa più facile far senza degli uomini, piuttosto che mantenersi in relazione con essi. Fra gl’inconvenienti ve n’ha uno del quale non si può facilmente rendersi conto come degli altri; ed è il seguente: nello stesso modo che a forza di starsene continuamente in una camera il nostro corpo diventa così sensibile ad ogni impressione esterna che la più piccola corrente d’aria lo colpisce morbosamente, così il nostro umore si fa talmente sensibile nella solitudine e nell’isolamento prolungato che ci sentiamo inquieti, afflitti od offesi dai fatti più insignificanti, da una parola, fors’anco dalla semplice apparenza, mentre chi è costantemente in mezzo al tumulto del mondo non presta affatto attenzione a tali bagattelle.

Potrebbe darsi che un uomo, specialmente in gioventù, e ad onta che la giusta avversione per i suoi simili l’abbia già fatto fuggire di sovente nell’isolamento, non sappia a lungo andare sopportarne il vuoto; io gli consiglio di abituarsi a portar seco nella società una parte della sua solitudine; apprenda così ad esser solo, fino ad un certo punto, anche fra la gente, per conseguenza non comunichi subito agli altri ciò che pensa, d’altra parte non annetta troppo valore a ciò che dice il mondo, e meglio ancora non si aspetti da esso gran cosa, sia dal lato morale sia dall’intellettuale, e quindi attenda a fortificare in sé questa indifferenza riguardo all’opinione altrui, mezzo sicurissimo per praticare costantemente una lodevole tolleranza. In siffatta guisa, benché in mezzo agli uomini, ei non sarà interamente nella loro società, ed avrà riguardo ad essi un’attitudine più puramente oggettiva, ciò che lo proteggerà contro un contatto troppo intimo colla gente, e quindi contro ogni contaminazione, e meglio ancora contro ogni offesa. Esiste una descrizione drammatica degna di nota d’una tale società attorniata da barriere e da trinceramenti, nella commedia «El café, o sea la comedia nueva» di Moratin; la si troverà nel personaggio di Don Pedro, soprattutto nelle scene 2° e 3° del primo atto.

In quest’ordine d’idee possiamo paragonare la società ad un fuoco innanzi a cui il saggio si riscalda senza però toccarlo come fa il pazzo il quale, dopo essersi scottato, fugge nella fredda solitudine e si lamenta perché il fuoco brucia.

10° L’invidia è naturale all’uomo, e tuttavia costituisce in un tempo stesso un vizio ed un’infelicità L’invidia, negli uomini, dimostra quanto si sentono infelici, e la continua attenzione che portano a tutto ciò che fanno o non fanno gli altri, prova quanto si annoiano. (Nota dell’Autore). Dobbiamo dunque considerarla come un nemico della nostra felicità, e cercar di soffocarla come un cattivo demone. Seneca ce lo comanda con queste belle parole: «Le cose nostre ci dilettano senza confronto: non sarà mai felice quegli a cui darà angoscia il desio di maggior bene» De ira, III, 30. Ed altrove: «Quando poni mente a quanta gente ti precede, pensa pure a quanta gente sta dietro di te» Ep. 15; bisogna dunque considerare piuttosto coloro la cui condizione è peggiore della nostra che non quelli che ci pare stiano meglio di noi. Quando ci colpiscono disgrazie reali, la consolazione più efficace, quantunque derivata dalla stessa sorgente dell’invidia, sarà la vista di mali più grandi dei nostri, ed a lato di ciò il frequentare persone che si trovino nello stesso caso nostro, i nostri compagni di sventura.

Ecco quanto sul lato attivo dell’invidia. Circa il lato passivo havvi da osservare che nessun odio è così implacabile come l’invidia; perciò invece d’esser incessantemente occupati ad eccitarla, faremmo assai meglio di rifiutarci, come molti altri, anche questo piacere, viste le sue funeste conseguenze.

Si danno tre aristocrazie: l° quella della nascita e del rango; 2° quella del danaro; 3° quella dello spirito. Quest’ultima è realmente la più nobile, e si fa anche conoscere per tale dato che gliene si lasci il tempo: lo stesso Federico il Grande non ha detto: «Le anime privilegiate stanno al medesimo livello dei sovrani»? Egli indirizzava queste parole al suo maresciallo di Corte, il quale si trovava offeso perché Voltaire era chiamato a prender posto in una tavola riservata unicamente ai sovrani ed ai principi della famiglia, mentre i ministri ed i generali pranzavano a parte con lui. Ognuna di queste aristocrazie è attorniata da un’armata speciale d’invidiosi, segretamente stizziti contro ciascuno de’ suoi membri, ed occupati, quando credono non aver da temere, a fargli capire in tutti i modi: «Tu non sei niente più di noi». Ma tali sforzi tradiscono precisamente la loro convinzione del contrario.
La linea di condotta che devono scegliere gl’invidiati consiste nel tenere a distanza tutti coloro che compongono tali bande, e nell’evitare qualunque contatto con essi in modo da restarne separati da un largo abisso; quando la cosa non è fattibile devono tollerare colla maggior calma possibile gli sforzi dell’invidia, la cui sorgente si troverà così esaurita.
Questo è quanto vediamo succedere ogni giorno. In cambio, i membri di una delle aristocrazie nominate s’intenderanno ordinariamente molto bene e senza provar invidia colle persone che fanno parte d’ognuna delle altre due, e questo perché ciascheduno mette nella bilancia il proprio merito come equivalente a quello degli altri.

11° È necessario meditare maturatamente ed a molte riprese un progetto avanti di metterlo in esecuzione, e, dopo averlo pesato scrupolosamente, bisogna pure calcolare la parte debole per l’insufficienza di ogni sapere umano; visti i limiti delle nostre cognizioni, possono sempre esservi circostanze che è stato impossibile scrutare o prevedere, e che potrebbero venir ad alterare il risultato di tutte le nostre speculazioni. Tale riflessione metterà sempre un peso nel piatto negativo della bilancia, e ci porterà negli affari importanti a non muover cosa senza necessità: «Quieta non movere.» Ma, una volta presa la decisione e messo mano all’opera, quando ogni cosa può seguire il suo corso, e quando noi non abbiamo più che da aspettare il risultato, non bisogna ormai tormentarsi con replicate considerazioni su ciò che è fatto, e con sempre nuove inquietudini sui possibili pericoli; è necessario invece scaricarsi completamente lo spirito da tale affare, chiudere affatto questo scompartimento del pensiero, e rimaner tranquilli nella convinzione d’aver tutto pesato maturamente a suo tempo. Ciò è quanto consiglia pure di fare il proverbio italiano: «Legala bene e poi lasciala andare» In italiano nell’originale. Se, ad onta di tutto, l’esito non corrisponde, si è perché tutte le cose umane sono soggette alla sorte ed all’errore. Socrate, il più saggio degli uomini, aveva bisogno d’un demone tutelare per discernere il vero, od almeno per evitare il falso ne’ suoi affari personali; non è questa una prova che la ragione umana non vi basta? Perciò questa sentenza, attribuita ad un papa, che siamo noi stessi, almeno in parte, colpevoli delle disgrazie che ci colpiscono, non è vera, né sempre, né senza riserve, quantunque lo sia nella maggior parte dei casi. Si è un tal sentimento che sembra condurre gli uomini a nascondere per quanto è possibile i loro mali, ed a cercare, come meglio possono riuscirvi, di aggiustarsi un aspetto soddisfatto. Essi temono che la sventura sia attribuita alla colpa.


Crediti
 Arthur Schopenhauer
 Aforismi sulla saggezza nella vita
  Traduzione Oscar D. Chilesotti
  Circa la nostra condotta verso noi stessi
 SchieleArt •   • 



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