
18.° Non sono le immagini della fantasia, ma nozioni nettamente concette che bisogna prendere per guida nei propri lavori. Il contrario succede molto di frequente. Bene esaminando, si scorge che ciò che nelle nostre determinazioni viene in ultima istanza a render decisiva la sentenza, non sono ordinariamente le nozioni ed i giudici, ma lo è bensì un’immagine della fantasia che le rappresenta e le sostituisce. Non so più in quale romanzo di Voltaire o di Diderot la virtù appare sempre all’eroe, posto come Ercole adolescente al bivio della vita, sotto l’aspetto del suo vecchio ajo che moralizza tenendo la tabacchiera nella mano sinistra ed una presa di tabacco nella destra; il vizio invece colle sembianze della cameriera di sua madre. Si è particolarmente durante la giovinezza che lo scopo della nostra felicità si fissa sotto la forma di certe immagini che volteggiano davanti noi e che persistono spesso durante la metà, e qualche volta durante tutto il corso della vita. Sono esse veri folletti che ci tormentano, perché appena raggiunte svaniscono e l’esperienza viene ad insegnarci che non mantengono affatto ciò che promettevano. Di questo genere sono le scene speciali della vita domestica, civile, sociale o rurale, le idee sull’abitazione e sulla nostra società, le decorazioni cavalleresche, le testimonianze di rispetto, ecc., ecc.; «chaque fou a sa marotte» In francese nell’originale. Si veda a proposito di questo motto la nota a pag. 10. (Nota del Trad.) – (Nota 2 nella presente edizione elettronica Manuzio) ogni pazzo ha la sua impresa; anche l’immagine dell’innamorata ne è una. È ben naturale che sia così, perocché ciò che si vede, essendo l’immediato, agisce sulla nostra volontà più facilmente della nozione, il pensiero astratto, che non dà che il generale senza il particolare; ora è proprio quest’ultimo che contiene il reale: la nozione non può dunque agire sulla volontà se non mediatamente. E tuttavia non v’ha che la nozione che mantenga quanto promette: è quindi prova di coltura intellettuale porre in essa sola tutta la propria fede. Di tratto in tratto si farà certamente sentire il bisogno di dare una spiegazione o di fare una parafrasi col mezzo di qualche immagine, ma soltanto «cum grano salis.»
19.° La regola precedente fa parte di quest’altra massima più generale che bisogna sempre saper dominare l’impressione di tutto ciò che è presente e visibile. Questo in riguardo al semplice pensiero, alla conoscenza pura, è incomparabilmente più forte, non in virtù della materia e del valore, che sono spesso insignificanti, ma in virtù della forma, vale a dire della visibilità e dell’attualità diretta le quali penetrando nello spirito ne turbano il riposo o ne rendono incerte le risoluzioni. Infatti ciò che è presente, ciò che è visibile, potendo facilmente esser abbracciato d’uno sguardo, agisce sempre d’un colpo solo, e con tutta la sua potenza; invece i pensieri e le ragioni, dovendo esser meditate pezzo per pezzo, richiedono e tempo e tranquillità, e non possono essere ad ogni momento ed interamente presenti allo spirito. Si è per questo che una cosa gradevole a cui la riflessione ci ha fatto rinunziare ci alletta ancora colla sua vista; così pure una opinione di cui conosciamo l’assoluta incompetenza tuttavia ci offende; un oltraggio ci irrita benché sappiamo che esso non merita se non disprezzo, nello stesso modo dieci ragioni contro l’esistenza d’un pericolo, sono vinte dalla falsa apparenza della sua comparsa, ecc. In tutte queste circostanze prevale la irragionevolezza originale del nostro essere. Le donne sono ben di frequente soggette a tali impressioni, e pochi uomini hanno una ragione abbastanza preponderante per non aver a soffrire dai loro effetti. Quando non possiamo dominarle interamente col solo pensiero, ciò che di meglio possiamo fare si è di neutralizzare un’impressione coll’impressione contraria: per esempio l’impressione di un’offesa con visite alle persone che ci stimano, l’impressione di un pericolo che ci minaccia colla vista reale dei mezzi proprî ad allontanarlo. Un italiano, di cui Leibnitz ci racconta la storia, Saggi critici, L. I, c. II, § 11, riesci perfino a resistere ai dolori della tortura: a ciò, con ferma risoluzione presa prima, impose alla sua immaginazione di non perdere di vista un solo istante la figura della forca a cui lo avrebbe senza dubbio condannato qualunque sua confessione; sicché ei gridava di tratto in tratto: «Ti vedo», parole che, come spiegò più tardi, si riferivano al patibolo. Per la stessa ragione quando tutti intorno a noi sono d’un’opinione differente della nostra e si conducono conseguentemente ad essa, è difficile non lasciarsi smuovere dalle nostre idee quand’anche si fosse convinti che gli altri sono nell’errore. Per un re fuggitivo, inseguito e che viaggia seriamente incognito, il cerimoniale di ossequio che il suo compagno e confidente osserverà quando sono a quattr’occhi deve essere un cordiale quasi indispensabile perché lo sventurato non giunga a dubitare della sua stessa esistenza.
20.° Dopo aver fatto spiccare fino dal secondo capitolo l’alto valore della salute come condizione prima, ed importantissima fra tutte, della nostra felicità, voglio indicare alcune regole di condotta molto generali per conservarla e fortificarla.
Per farsi robusti è necessario, finché si è in buona salute, sottoporre il corpo nel suo insieme, come pure in ciascuna delle sue parti, a sforzi ed a fatiche, e abituarsi a resistere a tutto quello che può male impressionarlo, per quanto bruscamente ciò possa succedere. Non appena, invece, si manifesta uno stato morboso sia del tutto, sia d’una parte, si dovrà ricorrere immediatamente al procedimento contrario, vale a dire risparmiare e curare in ogni maniera il corpo o la parte malata: perocché chi è sofferente o snervato non è suscettibile di esser aspramente invigorito.
I muscoli si fortificano; al contrario i nervi s’indeboliscono per un forte uso. Conviene dunque esercitare i primi con tutti gli sforzi convenienti e risparmiare invece qualunque sforzo ai secondi; in conseguenza difendiamo gli occhi dalla luce troppo viva specialmente quando è riflessa, dalla fatica della semioscurità e del guardare a lungo oggetti troppo piccoli; preserviamo egualmente le orecchie dagli strepiti troppo forti, ma soprattutto evitiamo al cervello qualunque applicazione forzata, sostenuta troppo a lungo od intempestiva; lo si lasci quindi riposare durante la digestione perocché allora quella stessa forza vitale che, nella testa, forma i pensieri, lavora con tutti i suoi sforzi nello stomaco e negli intestini a preparare il chimo ed il chilo; esso deve egualmente riposare durante e dopo un lavoro muscolare considerevole. Perocché per i nervi motori come per i nervi sensitivi le cose procedono nello stesso modo, e, come il dolore provato in un membro leso ha la vera sua sede nel cervello, così non sono le braccia e le gambe che faticano e camminano, ma il cervello, cioè quella parte di esso che, per mezzo della midolla allungata e della midolla spinale, eccita i nervi di questi membri e li fa muovere. Perciò la fatica che proviamo alle gambe od alle braccia ha la sua sede reale nel cervello; ed è per questo che le membra il cui movimento è sottomesso alla volontà, ossia ha impulso dal cervello, sono i soli che si stancano, mentre quelli il cui lavoro è involontario, come per esempio, il cuore, sono instancabili. Evidentemente adunque sarà nuocere al cervello l’esiger da esso un’attività muscolare energica e una grande tensione dello spirito, sia simultaneamente, sia soltanto dopo un intervallo di tempo troppo corto. Ciò non è per nulla in contraddizione col fatto che al termine d’una passeggiata od in generale dopo un breve cammino si prova un aumento nell’attività dello spirito, perocché in questo caso non v’ha per anco fatica delle parti rispettive del cervello, e d’altra parte una leggera attività muscolare, accelerando la respirazione, favorisce il salire del sangue arterioso, per di più meglio ossigenato, al cervello. Ma bisogna soprattutto dare ad esso la piena misura del sonno necessario al suo ristoro, perché il sonno è per la macchina umana ciò che il caricamento della molla è per l’oriuolo. Si veda Il mondo come volontà e come fenomeno II, 217. — 3° ed. II, 240. Tale misura dovrà esser tanto più grande quanto più il cervello sarà sviluppato ed attivo; però oltrepassarla sarebbe semplicemente uno sprecare il tempo, perocché allora il sonno perde in intensità ciò che guadagna in estensione. Si veda Il mondo come volontà e come fenomeno II, 247. — 3° ed. II, 275. Il sonno è una piccola porzione di morte che noi prendiamo a prestito anticipando (*) e col cui mezzo riguadagniamo e rinnovelliamo la vita consumata nello spazio di un giorno. Le sommeil est un emprunt fait à la mort. Il sonno prende a prestito dalla morte per mantenere la vita. Oppure esso è l’interesse pagato provvisoriamente alla morte, che rappresenta il pagamento completo del capitale. Il rimborso totale è chiesto con un ritardo tanto più lungo quanto più l’interesse è alto e pagato regolarmente. (Nota di Schopenhauer).
(*) In italiano nel testo originale. (Nota del Trad.) In generale persuadiamoci bene del fatto che il nostro pensare non è altro che la funzione organica del cervello, e che quindi esso si conduce, in quanto riguarda la fatica e il riposo, in modo analogo a quello di qualunque altra attività organica. Uno sforzo eccessivo stanca il cervello come stanca gli occhi. Si è detto con ragione: Il cervello pensa come lo stomaco digerisce. L’idea di un’anima immateriale, semplice, essenzialmente e costantemente pensante, quindi instancabile, che sarebbe come allogata a pigione nel cervello, e che non avrebbe bisogno di cosa alcuna al mondo, una tale idea ha certamente spinto più di qualcheduno ad una condotta insensata, condotta che ha rintuzzato le sue forze intellettuali; Federico il Grande, per esempio, non ha tentato una volta di disavvezzarsi totalmente dal sonno? I professori di filosofia dovrebbero bene non incoraggiare simili illusioni, dannose anche in pratica, col loro sistema ortodosso di filosofia da cannocchia Katechismusgerechtseynwollende Rocken-Philosophie. Bisogna apprendere a considerare le forze intellettuali quali funzioni fisiologiche allo scopo di saperle usare, risparmiare od affaticare a proposito; si deve ricordarsi che ogni dolore, ogni disagio, ogni disordine in una parte qualunque del corpo, impressiona lo spirito. Per convincersi pienamente di tale verità bisogna leggere: Cabanis, I rapporti del fisico e del morale nell’uomo.
Si è per aver trascurato di seguire questo consiglio che molte menti sublimi e molti grandi scienziati, sono caduti da vecchi nell’imbecillità, nell’infanzia e insino nella follia.
Se, per esempio, celebri poeti inglesi del nostro secolo, quali Walter Scott, Wordsworth, Southey, e vari altri, giunti a tarda età, e pur anche fino dalla sessantina, sono divenuti intellettualmente ottusi ed inetti, e talvolta imbecilli, senza dubbio bisogna attribuirlo al fatto che sedotti da stipendi elevati, hanno tutti esercitato la letteratura come un mestiere scrivendo per del danaro. Un tal mestiere conduce ad una fatica contro natura: chiunque sottomette il proprio Pegaso al giogo e spinge avanti la Musa colla frusta dovrà espiarne la colpa nella stessa maniera di colui che ha reso un culto forzato a Venere. Io credo che lo stesso Kant, in età avanzata, già divenuto celebre, si sia dato ad un lavoro eccessivo ed abbia provocato così quella seconda infanzia in cui passò i suoi ultimi quattro anni di vita.
Ogni mese dell’anno ha un’influenza speciale e diretta, vale a dire indipendente dalle condizioni meteorologiche, sulla nostra salute, sullo stato generale del nostro corpo, ed insino sullo stato del nostro spirito.
Aforismi sulla saggezza nella vita
Traduzione Oscar D. Chilesotti
Circa la nostra condotta verso noi stessi
SchieleArt • •
Ancora nessun commento