La vera formazione è sempre orale, poiché solo la parola orale permette il dialogo, ossia la possibilità per il discepolo di scoprire egli stesso la verità nello scambio delle domande e delle risposte, e anche la possibilità per il maestro di adattare il suo insegnamento ai bisogni del discepolo.
Numerosi filosofi, e non dei minori, non hanno voluto scrivere, poiché ritenevano — sulla scorta di Platone e probabilmente con ragione — che ciò che la parola viva scrive nelle anime sia più reale e più durevole dei caratteri tracciati sul papiro o sulla pergamena.
È davvero esagerato affermare (come si è fatto ancora recentemente) che la civiltà greco-romana sia diventata ben presto una civiltà della scrittura, e che sia dunque metodologicamente lecito trattare le opere filosofiche dell’antichità alla stregua di qualsiasi opera scritta.
Infatti le opere scritte di tale epoca restano strettamente legate a comportamenti orali. Sono spesso dettate a uno scrivano. E sono destinate a essere lette ad alta voce, o da uno schiavo che leggerà al suo padrone, o dal lettore stesso, poiché nell’antichità leggere significa abitualmente leggere ad alta voce, sottolineando il ritmo del periodo e la sonorità delle parole, che l’autore ha già potuto saggiare personalmente, allorché dettava la sua opera. Gli antichi erano estremamente sensibili a tali fenomeni sonori. Pochi filosofi, nell’epoca che stiamo studiando, hanno resistito a questa magia del «verbo
», neanche gli stoici, neanche Plotino.
Più di tutte le altre, le opere filosofiche sono legate all’oralità, poiché la stessa filosofia antica è, anzitutto, orale. Certamente accade che ci si converta leggendo un libro, ma allora ci si precipita dal filosofo, per ascoltare la sua parola, per interrogarlo, per discutere con lui e con altri discepoli, in una comunità che è sempre un luogo di discussione.
In rapporto all’insegnamento filosofico, la scrittura non è che un espediente per aiutare la memoria, un ripiego che non riuscirà mai a sostituire la parola viva.
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