Colti e primitivi, raffinati e naif, gli Ubu praticano le loro contraddizioni: il canto di Thomas è sguaiato nella peggior tradizione beefheartiana, la sezione ritmica macina un ritmo paradossale, un ballabile rozzo ed essenziale, l’accompagnamento sbilenco del chitarrismo di Herman strania e ipnotizza, Ravenstine inietta effetti crudi e anti-estetici utilizzando l’elettronica in modo antitetico a quello del flash-rock o della disco music (anti-melodico e anti-ritmico, sporco e disarticolato), come contrappunto ironico all’ansia maniacale. Così squilibrata, la danza moderna dei Pere Ubu emerge come un claustrofobico sentimental journey, punto di non ritorno più che di svolta, trama di ballate turpi e tenebrose al ritmo nevrotico di sibili e clangori di cocci, voci della disperazione in un balbettio armonico lacerato da bestemmie e lamenti. Il più efficace discorso sulla fine mai sviluppato nell’ambito della musica popolare.
Claustrofobico sentimental journey
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