La storia universale continuò il suo corso, gli dèi troppo umani che Senofane aveva attaccati furono umiliati a finzioni poetiche o a demoni, ma si disse che uno di essi, Hermes Trismegisto, aveva dettato un numero variabile di libri 42, secondo Clemente di Alessandria; 20.000, secondo Giamblico; 36.525 secondo i sacerdoti di Thoth, che è anche Hermes, nelle cui pagine stavano scritte tutte le cose. Frammenti di tale biblioteca illusoria, compilati o forgiati a partire dal secolo III, formano quel che si chiama il Corpus Hermeticum; in uno di essi, o nell’Asclepio, attribuito anch’esso a Trismegisto, il teologo francese Alain de Lille — Alanus de Insulis — scoprì alla fine del secolo XII questa formula, che le età future non avrebbero posta in oblio: Dio è una stera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo. I presocratici avevano parlato di una sfera senza fine; Albertelli come prima Aristotele pensa che parlare cosí è incorrere in una contradictio in adjecto, perché in tale proposizione soggetto e predicato si annullano; ciò può anche essere vero, tuttavia la formula dei libri ermetici ci lascia, quasi, intuire quella sfera. Nel secolo XIII, l’immagine riapparve nel simbolico Roman de la Rose, che l’attribuisce a Platone, e nell’enciclopedia Speculum Triplex; nel XVI, l’ultimo capitolo dell’ultimo libro di Pantagruel alluse a quella sfera intellettuale, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo, che chiamiamo Dio. Per la mente medievale, il senso era chiaro: Dio sta in ciascuna delle sue creature, ma nessuna Lo limita. Il cielo, il cielo dei cieli, non ti contiene disse Salomone I Re, 8,27; la metafora geometrica della sfera dovette apparite una glossa di quelle parole.
Il poema di Dante ha tramandato l’astronomia tolemaica, che per millequattrocento anni aveva governato l’immaginazione degli uomini. La terra occupa il centro dell’universo. È una sfera immobile; attorno le girano nove sfere concentriche. Le prime sette sono i cieli planetari i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno; l’ottava, il cielo delle stelle fisse; la nona, il cielo cristallino chiamato anche Primo Mobile. Questo è circondato dall’Empireo, che è fatto di luce. Tutto questo laborioso apparato di sfere vuote, trasparenti e rotanti un sistema ne esigeva cinquantacinque, era giunto ad essere una necessità mentale; De hypothesibus motuum coelestium commentariolus è il timido titolo che Copernico, negatore di Aristotele, mise al manoscritto che trasformò la nostra visione del cosmo. Per un uomo, Giordano Bruno, la rottura delle volte stellari fu una liberazione. Proclamò, nella Cena delle ceneri, che il mondo è l’effetto infinito di una causa infinita e che la divinità è vicina, giacché sta dentro di noi più ancora di quel che noi stessi stiamo dentro di noi. Cercò le parole per manifestare agli uomini lo spazio copernicano e in una pagina famosa stampò: Possiamo affermare con certezza che l’universo è tutto esso centro, o che il centro dell’universo sta dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo De la causa, principio et uno, V.
Ciò fu scritto con esultanza, nel 1584, ancora nella luce del Rinascimento; settanta anni dopo, niente rimaneva riflesso di quel fervore e gli uomini si sentirono perduti nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché se futuro e passato sono infiniti, non vi sarà realmente un quando; nello spazio, perché se ogni essere dista ugualmente dall’infinito e dall’infinitesimale, non vi sarà neppure un dove. Nessuno sta in nessun giorno, in nessun luogo; nessuno conosce il suo volto. Nel Rinascimento, l’umanità credette di aver raggiunto l’età virile, e lo dichiarò per bocca di Bruno, di Campanella e di Bacone. Nel secolo XVII, essa fu oppressa da una sensazione di vecchiezza; per giustificarsi, esumò la credenza di una lenta e fatale degenerazione di tutte le creature, per opera del peccato di Adamo. Nel quinto capitolo della Genesi consta che tutti i giorni di Matusalemme furono novecentosettantanove anni; nel sesto, che v’erano giganti sulla terra in quei giorni. L’elegia Anatomy of the world, di John Donne, lamentò la vita brevissima e la statura minuscola degli uomini attuali, che sono simili alle fate e ai pigmei; Milton, secondo la biografia di Johnson, temette che fosse ormai impossibile sulla terra il genere epico; Glanvill opinò che Adamo, medaglia coniata da Dio, godesse di una visione telescopica e microscopica; Robert South, con espressione celebre, scrisse: Un Aristotele non fu se non il rifiuto di Adamo, e Atene, i resti del Paradiso Terrestre. In quel secolo disanimato, lo spazio assoluto ch’era stato una liberazione per Bruno, fu un labirinto e un abisso per Pascal. Questi aborriva l’universo e avrebbe voluto adorare Dio, ma Dio, per lui, era meno reale dell’aborrito universo. Deplorò che non parlasse il firmamento, paragonò la nostra vita a quella di naufraghi in un’isola deserta. Sentì il peso incessante del mondo fisico, sentì vertigine, paura e solitudine e li trasfuse in altre parole: La natura è una sfera infinita, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo. Così pubblica Brunschvigg il testo, ma l’edizione critica di Tourneur Parigi, 1941, che riproduce le cancellature e le esitazioni del manoscritto, rivela che Pascal cominciò con lo scrivere effroyable: Una sfera spaventosa, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo.
Gli Eleati di Giovanni Reale: Questo testo offre una trattazione approfondita sul pensiero di Parmenide e dei filosofi eleati, collegandosi alla concezione della sfera come simbolo dell’essere perfetto e immutabile.
Timeo di Platone: In questo dialogo, Platone discute la figura perfetta della sfera e la sua importanza nella cosmologia platonica.
De la causa, principio et uno di Giordano Bruno: Questo trattato espone la visione di Bruno sull’universo come una sfera infinita, riflettendo la concezione della sfera come simbolo di un’entità divina pervasiva.
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