Un’analisi attenta del rapporto tra conflitto e comunità sfida radicalmente l’idea diffusa che il primo sia un fattore intrinsecamente divisivo e distruttivo per la seconda. Al contrario, si sostiene che le vere comunità — quelle dotate di vitalità, resilienti e capaci di evolvere insieme ai propri membri — non sono quelle che si presentano come oasi di pace prive di tensioni, ma proprio quelle in cui il conflitto viene riconosciuto, accolto e trasformato in una preziosa occasione di dialogo, di negoziazione e di comprensione reciproca.
Una comunità autentica non è un blocco monolitico, ma un ecosistema complesso, abitato da persone diverse, portatrici di visioni del mondo, interessi, desideri e bisogni che sono talvolta, e inevitabilmente, contrastanti. Questa pluralità non deve essere vista come un problema da risolvere o una deviazione da correggere, ma come la risorsa più preziosa di cui dispone il gruppo. In questa prospettiva, il conflitto diventa lo spazio vitale in cui queste differenze si possono incontrare, misurare, confrontare e ridefinire, permettendo la nascita di legami sociali più profondi, più consapevoli e più significativi. Una comunità che dimostra di saper affrontare i propri conflitti interni senza reprimere le voci dissonanti e senza rifugiarsi in un consenso artificiale e di facciata, è una comunità che si rivela per quello che è: realmente democratica, autenticamente inclusiva e piena di vita.
Il conflitto possiede una funzione formativa che non riguarda solo gli individui, ma si estende all’intero gruppo. È attraverso l’esperienza del confronto e della negoziazione che si forgiano e si ridefiniscono le identità collettive, si chiariscono i valori realmente condivisi, si stabiliscono gerarchie di importanza dinamiche e si immagina un futuro comune che sia il risultato di un processo partecipato. Senza la spinta generata dal conflitto, le comunità rischiano di arenarsi, di rimanere bloccate in una sorta di automovimento sterile, in cui le relazioni si fanno superficiali, i processi decisionali diventano appannaggio di pochi e il senso di appartenenza si rivela fragile, precario e incapace di resistere alle sfide.
Un punto cruciale di questa riflessione è che il conflitto non è il nemico della coesione sociale, ma, paradossalmente, una sua condizione di possibilità. Le società più forti e stabili non sono quelle che evitano a ogni costo il conflitto, ma quelle che hanno sviluppato una cultura e degli strumenti per gestirlo in modo costruttivo. Sono quelle che sanno creare spazi di incontro sicuri, dove le tensioni possono essere espresse, ascoltate e trasformate in energia creativa. Quando, al contrario, il conflitto viene sistematicamente soppresso o neutralizzato, esso non scompare. Si inabissa, cova sotto la cenere e riemerge in forme meno visibili ma potenzialmente molto più distruttive: il malcontento diffuso, la sfiducia reciproca, la frammentazione in tribù ostili o l’adesione a forme di estremismo irrazionale.
Per questo, un ruolo fondamentale è attribuito all’educazione e alle istituzioni locali nel promuovere una cultura del conflitto inteso come strumento di costruzione comunitaria. Solo insegnando, fin dalla più tenera età, a riconoscere il valore insito nel confronto, a distinguere nettamente tra conflitto e violenza, a praticare l’arte dell’ascolto attivo e del dialogo rispettoso, si potranno gettare le basi per una società davvero solidale. Una società capace di affrontare le proprie contraddizioni senza paura, vedendo in esse non una minaccia, ma una promessa di crescita.
Analisi del libro *Elogio del conflitto* di Miguel Benasayag
La soppressione del conflitto, scambiata per pace, indebolisce la società. Si sostiene che la tensione sia un motore essenziale per la democrazia e la crescita individuale. Un invito a praticare il dissenso in modo costruttivo, distinguendolo dalla violenza, per costruire comunità resilienti.
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Bowling alone. Declino e ripresa della comunità americana di Robert Putnam
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Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità di Emmanuel Levinas
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