È necessario quindi approfondire, articolandone i termini costituenti, la sospensione genericamente progettata sopra, sospendendo prima di tutto la più imponente di queste ovvietà, vale a dire l’ovvietà del termine stesso di
comunicazione, e assumere il termine secondo un’accezione che includa anche e soprattutto questo frangente anomalo di scrittura che andiamo cercando,
![Loui Jover ⋯](https://annamariatocchetto.files.wordpress.com/2016/12/103688-nicola_samori_nubifregio_2010.jpg)
impostando in tal modo una sorta di comunicazione, bisogna pur dirlo, paradossale, di comunicazione senza qualcosa di
oggettuale, o di
reale, di immediatamente riconoscibile da
comunicare; una sorta di comunicazione che, grazie a tale sospensione semantica che la riguarda, manifesti la trama di una essenziale formalità di senso, una comunicazione, aggiungiamo, che, se pure ad uno sguardo ingenuo sembra prima di tutto presentarsi
vuota e insensata, con apparente arroganza intende bastare a se stessa, priva soltanto in superficie di quel
qualcosa di
reale che di solito l’accompagna, e priva, sempre in superficie, corrispondentemente di una possibilità di ricezione in attesa di quel
qualcosa come dell’unico senso che sia stato promesso. Una comunicazione dunque che, sganciata, come stiamo sostenendo, dal dovere di riferirsi per forza a
qualcosa di
concreto da tutti subito riconoscibile per
quel qualcosa, in prima istanza appaia, in quanto formalità di senso, fare di sé stessa, soltanto di se stessa, contenuto. Una comunicazione, allora, che si liberi – ecco che finalmente si torna al termine chiave – di tutti i
contenuti per così dire
realistici, di tutti quelli che non siano riconducibili, rispetto ad ogni altra esigenza, alla pura eminenza di sé, al farsi ragione necessaria e sufficiente del proprio
vuoto scritturale così realizzato, un vuoto che si renda funzionale come il luogo in cui – come spesso il novecento scritturale più difficile e autentico ha dolorosamente insegnato – si fa presente l’assenza. Già, l’assenza, ma l’assenza di che cosa? nientemeno che: l’assenza del simulacro del mondo. L’assenza del simulacro del mondo? Che cosa rappresenta, agli occhi di un mondo come il nostro che vive in ogni attimo della più
concreta quotidianità di
comunicazione, una scrittura che, fuggendo ciò che ora abbiamo chiamato il
simulacro, comunica in prima istanza (e anzi: comunica la necessità di tale istanza) soltanto se stessa, e che lo fa, nell’opera di scrittura che eventualmente ne risulta, proponendosi riflessivamente magari quale grande metafora epocale, o immagine-rappresentazione di uno stato inapparente delle cose, o addirittura come diretto, esplicito riferimento d’assenza rispetto a un mondo (paradossalmente, e comunque) scritto, che di solito invece viene inteso, semplicemente e indiscutibilmente, come vera
copia del mondo
reale? Ma precisiamo meglio la perplessità: è possibile davvero una scrittura senza mondo (concesso che ciò che chiamiamo mondo ne sia soltanto un simulacro), dunque una scrittura senza un
mondo di cose, di persone, di situazioni da
descrivere, da utilizzare indiscutibilmente nella costruzione del simulacro di realtà che qui stiamo valutando come figura illusoria di ciò che intendiamo
normalmente come mondo, e che l’arte tradizionale della scrittura sembra così ben attrezzata a raccontarci? Una comunicazione senza ciò che chiamiamo
mondo? Che cosa farsene, in ultima analisi, di una tale
libertà, conquistata negando ciò che appare innegabile ad ogni passo di buon senso comune, ogni volta che ci si appresti a scrivere, o a leggere? E infine: è valsa in fin dei conti la pena faticare per conquistare, una tale libertà?
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