Nicola Chiaromonte ha scritto una volta che la domanda essenziale quando consideriamo la nostra vita non è che cosa abbiamo avuto o non avuto, ma che cosa resta di essa. Che cosa resta di una vita – ma anche e ancor prima: che cosa resta del nostro mondo, che cosa resta dell’uomo, della poesia, dell’arte, della religione, della politica, oggi che tutto quanto eravamo abituati a associare a queste realtà così urgenti sta scomparendo o comunque trasformandosi fino a diventare irriconoscibile? All’intervistatore che le chiedeva «che cosa resta per lei della Germania in cui è nata e cresciuta?», Hannah Arendt rispose «resta la lingua». Ma che cos’è una lingua come resto, una lingua che sopravvive al mondo di cui era espressione? E che cosa ci resta, quando ci resta soltanto la lingua? Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative? Ricordo che Ingeborg Bachmann mi disse una volta che non era capace di andare dal macellaio e chiedergli: «mi dia un chilo di fettine». Non credo che volesse dire che la lingua della poesia è una lingua più pura, che si trova al di là della lingua che usiamo dal macellaio o per gli altri usi quotidiani. Credo piuttosto che la lingua della poesia sia l’indistruttibile che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione, la lingua che resta anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet, la lingua che può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane, così come qualcuno ha scritto che l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto. Questa lingua che resta, questa lingua della poesia – che è anche, io credo, la lingua della filosofia – ha a che fare con ciò che, nella lingua, non dice, ma chiama. Cioè, con il nome. La poesia e il pensiero attraversano la lingua in direzione del nome, di quell’elemento della lingua che non discorre e non informa, che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama. Un breve testo che Italo Calvino usava dedicare agli amici come il suo «testamento spirituale» si chiude con una serie di frasi mozze e quasi ansimanti: «tema della memoria – memoria perduta – il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». Io credo che la lingua della poesia, la lingua che resta e chiama, chiama proprio ciò che si perde. Voi sapete che, tanto nella vita individuale che in quella collettiva, la massa delle cose che si perdono, lo scialo degli infimi, impercettibili eventi che ogni giorno dimentichiamo è così sterminato che nessun archivio e nessuna memoria potrebbero contenerli. Quello che resta, quella parte della lingua e della vita che salviamo dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto, se sta in qualche modo per esso, se lo chiama per nome e risponde in suo nome. La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde. Perché ciò che si perde è di Dio.
Cos’è una lingua come resto
Crediti
Quotes per Giorgio Agamben
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