Creatrice di individualisti

Il sole ci si infilava nella pelle, e la guerra spingeva i suoi abitanti a trafficare all’ombra di edifici bianchi. Su tutto proiettava un’ombra candida, come un velo davanti ai nostri occhi. Provava a ucciderci ogni giorno, ma ancora non le era riuscito. Non che la nostra incolumità fosse prestabilita. Non eravamo destinati a sopravvivere. In verità non eravamo destinati a niente. La guerra prendeva ciò che poteva. Era paziente. Non si curava degli obiettivi, dei confini, del fatto che ti volessero bene in tanti o nessuno.
All’epoca non avrei saputo esprimerlo a parole, ma ero stato addestrato a pensare che la guerra fosse la grande unificatrice, che avvicinasse le persone più di ogni altra impresa al mondo. Cazzate. La guerra è la massima creatrice di individualisti: come pensi di salvarmi la vita oggi? Morire sarebbe un modo. Se muori tu, aumentano le probabilità che non muoia io.
Il lutto è un meccanismo pratico, e noi piangevamo solo chi conoscevamo. Chiunque altro morisse, ad Al Tafar, faceva parte del paesaggio, come se in quella città fossero stati piantati semi da cui crescevano cadaveri, nella terra o attraverso l’asfalto, come fiori dopo una gelata, prosciugati e appassiti sotto un sole splendente e gelido.
Niente ti isola più dell’avere una certa storia. Almeno questo era ciò che pensavo. Ora lo so: il dolore è tutto uguale, cambiano solo i dettagli.
«Ehi, come va?» mi avrebbero chiesto. E io avrei risposto: «Come se mi stessero divorando da dentro, ma non posso dirlo a nessuno, perché tutti mi sono sempre grati e io, non so, mi sentirei un ingrato. O forse rischierei di rivelare che non merito nessuna gratitudine, anzi, dovrebbero odiarmi tutti per quel che ho fatto, invece mi vogliono bene, e questa cosa mi sta facendo impazzire». Come no.

Crediti
 Kevin Powers
 Yellow Birds
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