Credo ci sia stato un malinteso
«Stamattina dovrai arrangiarti con la colazione», annunciò mamma mentre afferrava frettolosamente la borsa e usciva di casa. Si lasciò dietro una scia del suo profumo della domenica e un tintinnio di braccialetti, inanellati l’uno sopra l’altro fino a metà braccio, per coprire le cicatrici della polio. Elegante in quell’abito che sfoggiava solo per le grandi occasioni (una tunica Tutsi verde smeraldo dei tempi in cui era direttrice) e i ricciolini domati dentro un grazioso chignon.
Quando suonò il citofono della Ciock International, era sudatissima, un po’ per la camminata, un po’ per il terrore.
«E tu chi sei?», domandò la centralinista, comodamente seduta dall’altra parte del vetro anti-proiettili.
«Sono qui per il colloquio di lavoro».
«Aspetta. Cosa?»
La fronte della donna si corrugò ulteriormente. Prese la cornetta e conversò fittamente al telefono per cinque buoni minuti. Poi ordinò a mia madre di aspettare accanto alla macchinetta del caffè, dove non c’erano sedie.
Mezz’ora dopo, il responsabile Risorse Umane sopraggiunse. Le sue scarpe verniciate scricchiolavano sul pavimento in marmo fiorentino, mentre i piedi lo conducevano laddove la sua testa, chiaramente, non voleva andare.
«Vieni, cara. Da questa parte, prego».
Il suo ufficio era più grande della nostra sala e della nostra cucina messe insieme e vantava una finestra che dava su Città Alta.
«Buonjorno, mi manda…».
Senza staccare gli occhi dal curriculum di mia madre, il boss alzò la mano destra come per fermare il traffico.
«Lo so benissimo chi ti manda. Abbiamo bisogno di qualcuno che pulisca gli uffici, le finestre e…».
«Scusi… signor?».
«Marini».
«Signor Marini, come specificato nella lettera inviatale dall’Ufficio Disabili, sono qui esclusivamente per coprire la posizione di centralinista e contabile».
Sogghignò per un momento e puntò gli occhi verso il soffitto, come se lassù ci fosse una qualche risposta.
«Credo ci sia stato un malinteso. Quella posizione necessita di un diploma…».
«Sì, ce l’ho un diploma. E una laurea. Superata con lode presso l’Università privata di Butare».
«E n’do l’è po’? In Negronia?», mugugnò tra sé, gli occhi sempre fissi sul suo soffitto.
«In Rwanda. Dove sono stata direttrice di tre collegi dal ’74 al ’79».
«Ada te. La capèse pure il bergamasco chèsta ché».
«E non solo. Oltre all’italiano e alla mia lingua madre, il kinyarwanda, sono fluente in francese. E ho una conoscenza base d’inglese».
«Sentimi, cara. In quest’azienda, in questo Paese, l’immagine viene prima di ogni cosa. Non possiamo assumere una… ah… fanculo».
Si alzò, scattò in avanti quasi per aggredirla, e le indicò la porta.
Mia madre aspettò il pullman alla fermata del marciapiede. Questionò ogni autista finché non passò quello che andava nella sua direzione. Quando arrivò, lo prese fino all’Ufficio Disabili e sporse denuncia.
Il lunedì seguente cominciò il nuovo lavoro seduta dall’altra parte del vetro anti-proiettili. Ci vollero mesi prima che la centralinista sempre accigliata mandasse giù la sua presenza.

Crediti
 Marilena Umuhoza Delli
 Negretta
 SchieleArt •   • 




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