Non si può non avvertire la vocazione favolosa e fantastica dell’arte orientale […]: quest’arte quasi sempre senza volti […], che non racconta nulla, ma celebra una irrequieta immobilità di segni entro uno spazio fluttuante ed arbitrario, che è totalmente «decorazione» ai nostri occhi disabituati alla gioia – decorazione dell’aria, del vuoto, di una pagina fittizia, un arazzo o un tappeto di nulla –, che continuamente trapassa dalla grafia al disegno, calligrammi in forma di cicogna, di pappagallo, di quartieri cittadini, di moschee, minareti e fiori, quest’arte accademica e avventurosa ha da secoli percorso l’itinerario del puro segno, dell’allusione grafica, dell’ambiguità e insieme dell’esattezza, dell’abolizione dello spazio, della prospettiva, dei limiti, della riscoperta della iterazione che ci affascina […] in un Klee […]. Nelle [sue] composizioni il segno partecipa dell’ideogramma, della suggestione cerimoniale del geroglifico, di una scheggia di danza – la danza della mano – che accompagna e definisce la scrittura. Il movimento della mano è ritmico; il segno, la firma, il disegno ambiguo è naturalmente iterativo; l’iterazione vanifica il rigore dei confini, l’armonia interna della struttura; l’eco di ciò che vediamo è inesauribile, il segno non è che una indicazione, un colpo di gong, dieci colpi, il numero è irrilevante, l’iterazione è naturalmente infinita. Ai nostri occhi il tappeto è un rettangolo illimitato; spesso ogni parte di questo minuscolo giardino artificiale ripete le altre parti: tutto è specchio e ritmo […]. Così […] Klee costruisce i suoi quadri ripetitivi, accosta quei segni che egli chiama «hyéroglyphes», suggerisce la sollecitazione di un vortice che li lega ed agita, o li assottiglia in frammenti di scrittura illeggibile, o li giustappone in quadrati, rettangoli, frammenti di materia, strisce di una vischiosità senza aria, quasi un sapiente aborto di tappeto.
Da Allah a Klee
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