Parlare di meno dire di più
L’attuale ciclo di lotte annuncia che il momento estremo della lotta rivendicativa può essere definito come quello in cui la contraddizione tra proletariato e capitale si tende a tal punto, che la definizione di classe diviene una costrizione esteriore, un’esteriorità che esiste semplicemente perché esiste il capitale. L’appartenenza di classe viene esteriorizzata come costrizione. Ecco il salto qualitativo nella lotta di classe. È qui che c’è superamento e non trascrescenza. È qui che si può passare da un cambiamento nel sistema ad un cambiamento di sistema.
La fase ultima dell’implicazione reciproca tra le classi è quella in cui il proletariato si impadronisce dei mezzi di produzione. Se ne impadronisce, ma non se ne può appropriare. L’appropriazione effettuata dal proletariato non può essere tale, giacché non può compiersi che attraverso l’abolizione del proletariato in quanto classe, nella quale esso si spoglia di tutto ciò che lo mantiene nella situazione sociale anteriore. La prassi rivoluzionaria è la coincidenza del mutamento delle circostanze e della trasformazione di sé.
Nel comunismo non c’è più appropriazione, poiché è la nozione stessa di prodotto a essere abolita. Ovviamente, si avranno oggetti (ma le nozioni di oggettività e soggettività sono esse stesse da ridefinire) per produrre e altri per il consumo diretto, altri ancora per entrambi. Ma parlare di prodotti e porsi la questione della loro circolazione, della loro ripartizione e della loro cessione, ovvero concepire un momento dell’appropriazione, presuppone dei luoghi di rottura, di coagulazione dell’attività umana: il mercato nelle società mercantili, il deposito e la presa nel mucchioin certe concezioni del comunismo. Il prodotto non è una cosa semplice. Parlare di prodotto è presupporre che un risultato dell’attività umana appaia come in sé concluso di contro a un altro risultato o a un ambiente di altri risultati. Non è dal prodotto che bisogna partire, ma dall’attività.
Nel comunismo l’attività umana è infinita poiché non è segmentabile. Ha dei risultati concreti o astratti, ma questi risultati non sono mai dei prodotti per i quali si porrebbe la questione della loro appropriazione o della loro cessione in una modalità qualsivoglia. Questa attività umana infinita sintetizza ciò che si può dire del comunismo. Se possiamo parlare di attività umana infinita riguardo al comunismo, è perché il modo di produzione capitalistico ci mostra già – certo contraddittoriamente e non come una sorta di lato buono – l’attività umana come un flusso sociale globale continuo, e il general intellect o l’operaio collettivo come forza dominante della produzione. Il carattere sociale della produzione non prefigura nulla, non fa altro che rendere contraddittoria la base del valore.
La necessità di fronte alla quale si trova la rivoluzione comunista non consiste nel modificare la divisione tra salario e profitto, ma nell’abolire la natura di capitale dei mezzi di produzione accumulati. È l’insufficienza del plusvalore in rapporto al capitale accumulato che sta al cuore della crisi dello sfruttamento; se non ci fosse al centro della contraddizione tra proletariato e capitale la questione del lavoro produttivo di plusvalore, se fosse solo un problema di distribuzione e se tutti i conflitti sul salario non fossero l’esistenza di questa contraddizione, la rivoluzione non sarebbe che un pio desiderio. Non è dunque attraverso un attacco alla natura del lavoro come produttivo di plusvalore che la lotta rivendicativa viene superata (si tornerebbe a un problema di distribuzione) ma attraverso un attacco ai mezzi di produzione in quanto capitale.
L’attacco contro la natura di capitale dei mezzi di produzione è la loro abolizione in quanto valore che assorbe lavoro per valorizzarsi, è l’estensione della gratuità, la distruzione anche fisica di certi mezzi di produzione, la loro abolizione in quanto impresa nella quale si definisce ciò che è un prodotto, ovvero abolizione del quadro dello scambio e del commercio; è lo sconvolgimento dei rapporti tra i settori della produzione in cui si materializza lo sfruttamento e il suo tasso, è la loro definizione, il loro assorbimento nei rapporti inter-soggettivi individuali; è l’abolizione della divisione del lavoro quale essa si inscrive nello zoning urbano, nella configurazione materiale degli edifici, nella separazione tra città e campagna, nell’esistenza stessa di qualcosa chiamato officina o luogo di produzione. I rapporti tra individui sono congelati nelle cose, perché il valore di scambio è di natura materiale (Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica). L’abolizione del valore è una trasformazione concreta del paesaggio nel quale viviamo, è una geografia nuova. Abolire dei rapporti sociali è una faccenda alquanto materiale.
La produzione di rapporti nuovi tra gli individui coincide allora con le misure comuniste adottate come necessità imposte dalla lotta. L’abolizione dello scambio e del valore, della divisione del lavoro, della proprietà, non sono altro che l’arte della guerra di classe, allo stesso modo che Napoleone condusse la sua guerra in Germania attraverso l’introduzione del codice civile. I rapporti sociali anteriori si sciolgono in questa attività sociale nella quale non c’è differenza tra l’attività di scioperanti e insorti e la creazione di rapporti altri tra gli individui, rapporti nuovi all’interno dei quali gli individui considerano ciò che è come un flusso ininterrotto di produzione della vita umana.
La distruzione dello scambio sono operai che attaccano le banche dove hanno depositati i loro risparmi, e altri operai che sono così costretti a cavarsela facendone a meno; sono i lavoratori che si trasmettono e trasmettono alla comunità le loro attività direttamente e senza mercato; sono i senza casa che occupano gli alloggi, obbligando così a produrre gratuitamente gli operai edili, i quali attingeranno liberamente dai magazzini, forzando la classe intera a organizzarsi per andare a procurarsi il cibo presso i settori ancora da collettivizzare etc. Intendiamoci, non esiste alcuna misura che, in se stessa, presa isolatamente, rappresenti il comunismo. Distribuire beni, fare circolare direttamente mezzi di produzione e materie prime, utilizzare la violenza contro lo Stato – non c’è nessuna di queste cose che non possa essere opera, in talune circostanze, di una frazione del capitale. Ciò che è comunista non è la violenza in sé, né la distribuzione della merda che ci lascerà in eredità la società di classe, né la collettivizzazione di macchine che succhiano plusvalore; è la natura del movimento che mette in relazione queste azioni, che le sostiene, facendone dei momenti di un processo che non può che comunizzare sempre più o essere schiacciato.
Le attività militari e sociali sono indissolubili, simultanee e compenetrate le une nelle altre. Non si può fare una rivoluzione senza mettere in atto delle misure comuniste, senza dissolvere il lavoro salariato e comunizzare l’alimentazione, l’abbigliamento e l’alloggio, senza procurarsi tutte le armi necessarie (quelle distruttrici, ma anche le telecomunicazioni, il cibo etc.), senza integrare i senza riserve (compresi quelli che noi stessi avremo reso tali), i disoccupati, i contadini in rovina, gli studenti squattrinati e senza legami. Parlare di una rivoluzione condotta da una categoria che rappresenta il 20% della popolazione e che sta facendo scioperi per chiedere allo Stato di soddisfare i propri interessi, è una barzelletta.
La classe capitalista e le sue innumerevoli costole periferiche poggiano su un groviglio complicato, formalistico, burocratico, vulnerabile al più alto grado, fatto di legami finanziari, di crediti, di obbligazioni. Senza questi legami, la sua coerenza interna si sfalda. Questa classe non è una comunità fondata su un’associazione materiale, è un conglomerato di concorrenti incentrato sullo scambio. Lo scambio è la comunità astratta (il denaro). Perciò tutte le misure di comunizzazione dovranno essere un’azione energica per lo smantellamento dei legami che uniscono i nostri nemici e i loro supporti materiali, una distruzione rapida, senza possibilità di ritorno. La dittatura del movimento sociale di comunizzazione è il processo d’integrazione dell’umanità nel proletariato sul punto di scomparire. La stretta delimitazione del proletariato in rapporto alle altre classi e la sua lotta contro ogni produzione mercantile, sono al tempo stesso un processo che costringe le fasce della piccola borghesia salariata, della classe dell’inquadramento sociale, a raggiungere la classe comunizzatrice, che è dunque definizione ed esclusione e, al contempo, smarcamento e apertura, cancellazione delle frontiere e deperimento delle classi. Non è un paradosso, ma la realtà del processo nel quale il proletariato si definisce, nella pratica, come movimento di costituzione della comunità umana. Il movimento sociale in Argentina, giacché vi si è confrontato, ha posto il problema dei rapporti tra proletari occupati (salariati), disoccupati, esclusi e classe media. Non vi ha apportato che delle soluzioni estremamente parcellari, tra le quali la più interessante è senza dubbio l’organizzazione territoriale. In tale situazione, i denigratori radicali dell’interclassismo e i propagandisti dell’unanimità nazionale e democratica, sono i militanti di due differenti sconfitte. La rivoluzione, che in questo ciclo di lotte non può essere altro che comunizzazione, supera il dilemma tra le alleanze di classi leniniste e democratiche e il proletariato solo di Gorter.
Il solo modo di superare i conflitti tra disoccupati e occupati, tra qualificati e non-qualificati, è di porre subito in essere, nel corso della lotta armata, delle misure di comunizzazione che sopprimano la base stessa di queste divisioni (ciò che, in rapporto alla questione, nelle fabbriche recuperate in Argentina non è stato fatto se non molto marginalmente, accontentandosi più sovente – come alla Zanon per esempio – di qualche redistribuzione caritatevole ai gruppi di piqueteros). Ai giorni nostri, nei paesi sviluppati, da un lato la stragrande maggioranza della classe media non ha più alcun fondamento materiale per la propria posizione sociale; il suo ruolo di inquadramento e di direzione della cooperazione capitalistica è essenziale ma permanentemente precarizzato, la sua posizione sociale dipende da un meccanismo molto fragile di prelevamento di frazioni di plusvalore; ma dall’altro lato, per queste stesse ragioni, la sua prossimità formale al proletariato la porterà a presentare nelle lotte di quest’ultimo delle soluzioni gestionarie alternative, nazionali o democratiche, che possano preservare la sua posizione. Essa potrebbe trovarsi a proprio agio nel democratismo radicale, che esprime oggi i limiti delle lotte. Non ci saranno soluzioni miracolose data l’assenza di rivendicazioni unificanti, e la classe si unificherà soltanto mandando in frantumi il rapporto in seno al quale le rivendicazioni hanno un senso: il rapporto di capitale. La questione essenziale che dovremo risolvere sarà come estendere il comunismo, prima che venga soffocato nella morsa della merce: come integrare l’agricoltura per non dover scambiare con i contadini; come tagliare i legami scambisti dell’avversario per imporgli la logica della comunizzazione dei rapporti e dell’impossessamento dei beni; come dissolvere, attraverso la rivoluzione, la paura della rivoluzione.
I proletari non sono rivoluzionari come il cielo è blu, giacché sono salariati e sfruttati, enondimeno sono la dissoluzione della condizioni esistenti. Trasformando sé stessi a partire da ciò che sono, si costituiscono in classe rivoluzionaria.

Crediti
 Autori Vari
 Dall'autorganizzazione alla comunizzazione
  Revue Internationale Pour la Communisation
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