1.
«Il mio linguaggio è quello del popolo: è troppo rozzo e aperto per i damerini vestiti di seta. E più strana suona ancora la mia parola per tutti gli imbratta-carte e i guasta-penne.
La mia mano è come quella d’un pazzo; guai alle tavole ed alle pareti e a tutto ciò che offre uno spazio libero ai ghirigori del pazzo, agli scarabocchi del pazzo!
Il mio piede — è un piede equino; con esso io salto oltre ogni ostacolo, e provo un diabolico piacere di correr presto.
Il mio stomaco — sarebbe forse quello di un’aquila? Giacché sopra ogni cosa esso predilige la carne d’agnello. Certo è uno stomaco d’uccello.
Nutrita di cose innocenti, e contenta al poco, pronta e impaziente di volare, di volar via — ecco quale è la mia natura. Come non avrebbe essa alcun che della natura degli uccelli?
E sopra tutto m’è in odio, come agli uccelli, lo spirito della gravità; e proprio ne son nemico mortale, acerrimo, nemico nato! Oh fin dove non è già volata e non s’è già smarrita la mia inimicizia?
Potrei — e voglio — cantare qualche canto appropriato a questo argomento: benché mi trovi solo in una casa vuota e debba cantare per soli i miei orecchi.
Ci sono altri cantanti, è vero, ai quali l’ugola si fa elastica e il gesto e l’occhio espressivi, e il cuore desto, soltanto quando la sala è affollata. Ma io non rassomiglio a costoro.
2.
Chi agli uomini insegnerà di volare avrà con ciò infranto tutte le pietre miliari; voleranno, esse, tutte per aria ed egli ribattezzerà la terra con questo nome: «la leggera».
Lo struzzo corre più veloce del più rapido cavallo, ma esso ancora nasconde la testa nella sabbia pesante; e così fa l’uomo, che non sa per anche volare.
Gli pesano la terra e la vita; così vuole lo spirito della gravità! Ma chi vuol diventare leggero e gareggiar con gli uccelli, deve amare sé stesso: — questo io insegno.
Pure, l’amor di sé stessi che io insegno non è già quello dei tisici e dei fatui, nei quali puzza persili l’amor proprio — bensì un amor sano, che ci avvezza a sopportare la propria vita e ci affranca dal bisogno di errare.
Un tale errare si chiama «amore del prossimo»: questa parola giovò finora meglio d’ogni altra alla menzogna e all’ipocrisia, e segnatamente piacque sin qui a coloro che sono a tutti di peso.
E, per verità, quello d’imparare ad amar sé stessi non è un accomodamento per oggi e per domani. Bensì di tutte le arti questa è la più squisita, la più astuta, la più ardua, la suprema.
Per colui che la possiede, ogni cosa è ben celata; e di tutti i pozzi di tesori il proprio è l’ultimo ad essere sfruttato: — così ha stabilito lo spirito della gravità.
Mentre ancor siamo per così dire nella culla ci dànno in dono parole e valori pesanti: «bene» e «male». In grazia di questo ci si perdona di vivere.
E non per altro usano far venire a sé i pargoli se non per impedir loro per tempo di amare sé stessi: così volle lo spirito della gravità.
E noi — noi trasciniamo pazienti ciò che ci fu dato in retaggio, noi lo rechiamo su le nostre dure spalle oltre gli aspri monti! E quando ansiamo ci si risponde: «Si, la vita è dura a sopportare!».
Ma l’uomo soltanto, non la vita, è duro a sopportare! Troppe cose straniere egli reca su le proprie spalle. Simile al camello ei s’inginocchia a terra e consente che altri lo carichi di gravi pesi.
Sopra tutto l’uomo forte che ha buone spalle e disposto lo spirito alla venerazione, troppe parole e troppi valori estranei s’addossa; — e poi la vita gli sembra un deserto!
E invero anche delle cose proprie una gran parte riesce pesante a sopportare! L’anima dell’uomo è simile all’ostrica, cioè viscida e guizzante e difficile a digerirsi — sicché solo un nobile guscio dagli eleganti ornamenti può allettarci a gustarne. Ma è mestieri apprendere anche quest’arte: avere un guscio e una bella apparenza e una sapiente cecità.
Pure anche nell’uomo il guscio inganna, se è di meschina apparenza o ruvida troppo. Quanta bontà, quanta forza restano talora incomprese, quante volte i bocconi più saporosi non trovano chi se ne diletti!
Le donne sanno ciò, le preziose per eccellenza: un po’ più grasse, un po’ più magre — o quanta parte di destino dipende da così poco!
Difficile è scoprir l’uomo; più difficile ch’ei si riveli a sé stesso; molte volte lo spirito mente sul conto dell’anima. Così ha voluto lo spirito della gravità.
Ma ha scoperto sé stesso colui che dice: «Questo è il mio bene e il mio male!». Con ciò egli ha fatto ammutolire la talpa e il nano che chiaman «buono» ciò che è tale secondo la comune opinione, cattivo ciò che è tale secondo il giudizio di tutti.
In verità io non posso tollerare né pur coloro che giudicano buona ogni cosa e tengono questo come il migliore di tutti i mondi. Io li chiamo gli onnicontenti.
L’onnicontentezza che sa trovar gusto in ogni cosa, non è di buon gusto! – Io rispetto le lingue e gli stomachi ribelli e di difficile accontentatura, i quali hanno imparato a dire «Io» e «sì» e «no».
Ma tutto masticare e tutto digerire — è cosa propria del maiale! Dire sempre I-O, — è proprio dell’asino e di coloro che gli somigliano.
Il giallo intenso e il rosso ardente, ecco ciò che vuole il mio gusto — il quale rimescola il sangue con tutti i colori. Ma chi scialba la sua casa mi rivela un’anima imbiancata.
Altri s’innamora di mummie, altri di fantasmi, ma entrambi sono avversi a tutto ciò ch’è carne e sangue — entrambi mi destano ribrezzo! Giacché io amo il sangue.
E io non voglio dimorare dove tutti sputano e calunniano: meglio amo vivere, tra i ladri e gli spergiuri. Nessuno porta l’oro in bocca.
Ma più ancora ho in fastidio gli adulatori; e al più sozzo animale ch’io trovai io detti nome di parassita: egli non voleva amare, ma vivere dell’amore.
Io chiamo disgraziati tutti coloro che non sanno scegliere se non tra questi estremi: e diventare animali malvagi, o malvagi domatori. Vicino a loro io non edificherei la mia casa.
E disgraziati sono per me anche quelli che devono aspettare sempre: ho in uggia anche costoro: pubblicani e mercanti e re, o custodi di regni e di botteghe.
A dir il vero, anch’io imparai ad aspettare; ma soltanto ad aspettare per me stesso. E sopra ogni cosa imparai a stare, a camminare, a correre, a saltare, ad arrampicarmi.
Ma così suona la mia dottrina: Chi vuole apprendere a volare un giorno deve prima di tutto imparar a stare, a camminare, a correre, ad arrampicarsi: — non s’apprende in una sola volta l’arte del volo.
Con le scale di corda imparai a scalare più d’una finestra, con le gambe agili m’arrampicai su per gli alti alberi delle navi: sedere in alto su gli alberi della conoscenza mi parve una non spregevole gioia.
Tremolare come fiammella sugli alti alberi della nave: una luce meschina da vero, ma un grande conforto per i naviganti fuor di rotta e per i naufraghi!
Per molte vie e in molti modi io giunsi alla mia verità: non per una sola scala io ascesi all’altezza, dalla quale signoreggio con lo sguardo le distanze.
E malvolentieri ho chiesto ad altri che m’insegnasse la via; ciò mi fu sempre fastidioso! Ho preferito ricercare e tentare da me stesso le vie.
Il mio cammino fu un tentare e un ricever continuo. — E in verità, bisogna anche imparare a rispondere ad una tale ricerca: ma questo è il mio volere — non buono, né cattivo, ma mio — del quale ormai più né mi vergogno, né fa mistero.
Questa è ormai la mia via: dov’è la vostra? così io risposi a coloro che mi richiedevano della via. Giacché la via non esiste!».
Così parlò Zarathustra.
Così parlò Zarathustra
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