Come attività collettiva organizzata intorno a materiali da trasformare in vista di un certo uso, essa esiste fin dall’antichità; l’estrazione di minerali e la costruzione di edifici, per esempio, sono forme antichissime di industria basate quasi esclusivamente sul lavoro degli schiavi e sull’uso di macchine molto semplici (mulini ad acqua, argani, ecc.) o di strumenti di lavoro individuali. Per questo Marx, criticando le considerazioni ideologiche sui rapporti tra uomo e natura, poteva affermare che «la celeberrima unità dell’uomo con la natura è sempre esistita nell’industria». Qui infatti l’uomo attraverso il lavoro conosce, utilizza e modifica forze e materiali naturali.
Ma è con l’introduzione di «macchinari», cioè di un insieme comprendente la macchina motrice, il meccanismo di trasmissione, la macchina utensile o operatrice, che sorge quella che Marx chiama la «grande industria», l’industria moderna, erede della manifattura. Qui: «l’articolazione del processo lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzione del tutto oggettivo, che l’operaio trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione pronta» Il Capitale, libro I, p. 428.
Questa condizione materiale esige il lavoro in comune: «il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo di lavoro stesso»; di conseguenza è necessaria una coerente organizzazione che regoli il lavoro in comune nel modo più adatto a favorire il funzionamento delle macchine. Nascono così i regolamenti e le norme di lavoro per gli operai; dal piano tecnico si passa al piano umano, sociale, indicando i comportamenti più razionali nel processo lavorativo. Il capitalismo si impadronisce di questa pur necessaria elaborazione di regole e la trasforma in un codice oppressivo che ha per scopo l’intensificazione dello sfruttamento: «Il codice della fabbrica in cui il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro, non è che la caricatura capitalistica della regolazione sociale del processo lavorativo» Il Capitale, libro I, pp. 468-469.
La democrazia borghese, in altre parole, si sbarazza apertamente delle proprie illusioni davanti alla porta della fabbrica al suo interno infatti i grandi principi di libertà, di uguaglianza, di dignità perdono il loro significato e l’uomo «libero» che ha «liberamente» venduto la propria forza-lavoro diventa un’appendice della macchina. Riassume Engels: «È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica, in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l’operaio ad adoperare la condizione del lavoro, ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l’operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnologicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto, che domina e succhia la forza-lavoro vivente» Studi sul Capitale, pp. 79-80.
I temi dell’industria, e quindi delle macchine, sono per Marx essenziali non solo per lo studio del modo capitalistico di produzione in senso tecnico-economico, ma anche per individuare le nuove forme di servitù dell’esistenza umana; dai Manoscritti del ‘44 al Capitale la disgregazione dell’uomo è il centro di un interesse che si esprime dapprima nei termini filosofici dell’estraniazione, dell’alienazione, della reificazione, poi in termini più concreti del modo di essere dell’uomo nel sistema di fabbrica, cioè in un complesso organico di macchine che non ha più alcun bisogno della tradizionale abilità artigiana del passato; qui si compiono, per usare le parole del Capitale, il cammino verso «la desolazione intellettuale», la trasformazione dell’uomo in semplice macchina che produce plusvalore, la corruzione dello sviluppo dello spirito: tanto più gravi in quanto esse sono di fatto una realtà nella quale il lavoratore è gettato fin dall’infanzia o dalla primissima gioventù.
Certamente negli anni in cui Marx scriveva queste righe la situazione era giunta a un punto così drammatico da indurre la borghesia a porvi un limite; il parlamento della nazione più altamente industrializzata, l’Inghilterra, istituì l’obbligo legale dell’istruzione elementare quale condizione per il consumo «produttivo» dei ragazzi al di sopra dei 14 anni. Con ciò si pensava di salvaguardare almeno in parte lo sviluppo della personalità minato dal lavoro in fabbrica; in altri Stati, quando l’industrializzazione portò a problemi analoghi si adottarono provvedimenti dello stesso genere.
La grande industria, dove l’applicazione cosciente della scienza aveva sostituito l’esperienza connessa con i vecchi mestieri, segnava la decisiva affermazione del modo di produzione capitalistico su ogni altro precedente; nel con tempo formava alla sua «dura scuola» la coscienza della nuova classe con la quale, entro un tempo brevissimo, avrebbe dovuto sostenere ben altre lotte da quelle delle occasionali e confuse ribellioni del più recente passato.
Dizionario enciclopedico marxista
www.resistenze.org
a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
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