È il plusvalore considerato come parte del valore complessivo della merce in cui è incorporato il pluslavoro. La distinzione tra profitto e plusvalore è necessaria innanzitutto perché il primo «non viene intascato tutto dall’imprenditore capitalista» mentre il secondo è da questi «spremuto direttamente dall’operaio». Si consideri l’esempio comunissimo di un imprenditore che paghi l’affitto del terreno sul quale è posta la sua fabbrica e, nel contempo, si sia fatto prestare una certa somma di denaro da un altro capitalista o abbia da pagare macchine e materie prime ad altri, il che, nei limiti di questo esempio, è lo stesso. Quando egli si sia impossessato di un plusvalore di cento milioni, ne dovrà sborsare, poniamo, dieci per l’affitto del terreno e trenta per gli interessi. Il suo profitto sarà di sessanta milioni contro un plusvalore di cento milioni prodotto dalla forza-lavoro da lui comperata. Ecco quindi che:
Il Rendita fondiaria, interesse e profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce, o del lavoro non pagato in essa contenuto, e scaturiscono in ugual modo da questa fonte e unicamente da questa fonte. Essi non derivano dal suolo come tale o dal capitale come tale; ma suolo e capitale danno la possibilità ai loro proprietari di ricevere la loro parte rispettiva del plusvalore che l’imprenditore capitalista spreme dall’operaio» Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 67, 68.
Le interpretazioni borghesi dell’economia politica usano in generale esclusivamente il termine «profitto» per indicare il cosiddetto «guadagno dell’imprenditore»: così il profitto perde qualunque rapporto con il plusvalore, in quanto viene calcolato detraendo dal prezzo di vendita della merce il suo prezzo di costo, determinato non già come somma del capitale costante e del capitale variabile impiegati nella produzione, ma come somma di capitale fisso e circolante. Occorre anzitutto notare che nel cosiddetto capitale circolante, ad esempio, è contenuto non solo il valore dei salari ma anche il valore delle merci utilizzate nella produzione: «Il profitto, quale ci appare qui è dunque la stessa cosa che il plusvalore, soltanto in una forma mistificata, che per altro sorge necessariamente nel modo capitalistico di produzione».
Il profitto può anche essere considerato come la realizzazione del valore del plusprodotto (Plusvalore). Anche da questo punto di vista può evidentemente sorgere una differenza quantitativa tra plusvalore e profitto, poiché il prezzo a cui viene venduta la merce prodotta può subire notevoli variazioni determinate dalla concorrenza e da altri fattori. Infatti il prodotto può essere venduto al di sopra o al di sotto del suo valore; in quest’ultimo caso il profitto che ne trae il capitalista è soltanto una parte del plusvalore di cui si è appropriato. Ma la restante parte di plusvalore viene anch’essa immessa nella circolazione come profitto del compratore, che ha comprato la merce al di sotto del suo valore reale.
«Se dunque la merce è venduta al suo valore, si realizza un profitto che è pari all’eccedenza del valore rispetto al prezzo di costo, vale a dire all’intero plusvalore incorporato nel valore della merce. Ma il capitalista può vendere la merce con profitto, anche se la vende a meno del suo valore. Fintanto che il prezzo di vendita, pur essendo inferiore al valore, supera il prezzo di costo, si realizza pur sempre una parte del plusvalore contenuto nella merce, vale a dire si determina pur sempre un profitto» Il Capitale, libro III, p. 63
Nell’analisi del profitto e del saggio del profitto Marx mette in particolare rilievo il processo di trasformazione del profitto in profitto medio, e del saggio del profitto in saggio medio del profitto o saggio del profitto medio. I capitoli dedicati a questo problema sono molto complessi; si possono tuttavia riassumere molto brevemente alcuni aspetti essenziali. Considerando un singolo settore produttivo, i capitalisti che impiegano capitali della stessa grandezza ottengono approssimativamente lo stesso profitto. Infatti, nonostante il fatto che i profitti dovrebbero essere diversi nella misura in cui il plusprodotto sia costituito di merci di valore diverso, la concorrenza tra i capitalisti dello stesso settore li costringe a vendere i loro prodotti ai prezzi di mercato, che non permettono di realizzare interamente il valore del plusprodotto di cui sono proprietari. I loro pro- fitti vengono livellati attorno a una media dalla concorrenza nella vendita delle merci.
Anche considerando i diversi settori produttivi la concorrenza fa sì che la proporzione di profitto ottenibile con capitali uguali oscilli intorno a una media. Infatti, anche se nei settori produttivi in cui la composizione organica del capitale richiesto per la produzione è inferiore dovrebbero venire realizzati profitti superiori, nel concreto sviluppo della società capitalistica i capitalisti, proprio perché impiegano i loro capitali principalmente dove esiste la possibilità di ottenere maggiori profitti, a lungo andare provocano le condizioni di una sovrapproduzione e i prezzi delle merci prodotte in quei settori diminuiscono, e quindi i loro profitti tendono a ritornare ai valori medi degli altri settori produttivi. In una fase avanzata di sviluppo del modo di produzione capitalistico la stessa quantità di capitale impiegata in settori diversi, uguale rimanendo il saggio del plusvalore e il tempo di rotazione del capitale, dà origine a profitti sostanzialmente uguali.
Dizionario enciclopedico marxista
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a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare di Torino
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