Nelle Baccanti, Dioniso e Penteo non si contendono niente di concreto. La rivalità verte sulla divinità stessa, ma dietro alla divinità non c’è che la violenza. Rivaleggiare per la divinità è rivaleggiare per niente: la divinità non ha altra realtà che quella trascendente, una volta che la violenza sia stata espulsa, una volta che sia definitivamente sfuggita agli uomini. La rivalità isterica non genera direttamente la divinità: la genesi del dio si effettua per il tramite della violenza unanime. Nella misura in cui la divinità è reale, non è una posta in giuoco. Nella misura in cui la si considera una posta, essa è un’illusione che, finirà per sfuggire a tutti gli uomini senza eccezione. Bisogna dunque guardarsi dall’interpretare tale conflitto a partire dai suoi oggetti, per quanto prezioso ci possa sembrare il loro valore intrinseco, siano essi il trono, per esempio, oppure la regina. Le Baccanti ci mostrano che è opportuno invertire l’ordine consueto dei fenomeni nell’interpretazione della rivalità tragica. Prima viene l’oggetto, si crede, poi i desideri che convergono indipendentemente su tale oggetto in questione, e infine la violenza, conseguenza fortuita, accidentale, di questa convergenza. Man mano che si avanza nella crisi sacrificale, la violenza diviene sempre più manifesta: non è più il valore intrinseco dell’oggetto a provocare il conflitto, eccitando bramosie rivali, è la violenza stessa che valorizza gli oggetti, che inventa pretesti per meglio scatenarsi. È lei, ormai, a dirigere il giuoco; è la divinità che tutti tentano di padroneggiare ma che si fa giuoco di tutti successivamente, il Dioniso delle Baccanti.
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