Solo il 14 percento degli americani nega il cambiamento climatico, vale a dire una percentuale nettamente inferiore a quella di chi nega l’evoluzionismo o che la Terra orbiti intorno al Sole. Il 69 percento degli elettori americani – compresa la maggioranza dei repubblicani – ritiene che gli Stati Uniti sarebbero dovuti rimanere nell’Accordo di Parigi sul clima. I progressisti potranno pure aver cooptato la retorica e l’immagine del movimento ambientalista, ma non c’è niente di più conservatore della conservazione della natura.
Come ti spieghi che così tanta gente non neghi che il pianeta sia in pericolo, eppure non sia allarmata perché il pianeta è in pericolo? Probabilmente li definirei stupidi o cattivi, se non fossi uno di loro.
Non sei allarmato? Voglio esserlo, ma non lo sono. Dico di esserlo, ma non lo sono. E più la situazione diventa allarmante, più aumenta la mia capacità di ignorare l’allarme.
Come te lo spieghi? Non lo so.
Provaci.
Gli esseri umani hanno una straordinaria capacità di adattamento.
Mi sembra una stronzata.
Vero.
E allora sforzati un po’ di più.
Noi…
Non parlare per gli altri. Parla per te.
La mia strategia, quando ho scritto «Come evitare la morìa suprema» – le uniche pagine di questo libro dense di dati concreti – è stata di concentrarmi al massimo sulle mie reazioni personali, anziché emulare lo stile giornalistico degli articoli e dei libri che stavo leggendo per le ricerche, i quali immancabilmente – a prescindere da quanto fossero seri, ben documentati e ben scritti – non mi spingevano a fare proprio niente. Ero disposto a rinunciare alla completezza, e persino a un certo grado di professionalità, in cambio di una forma che mi motivasse.
Ha funzionato? Di sicuro io mi sono convinto.
E non va bene? Mi sono convinto di quello di cui ero già convinto, senza per questo vivere in modo diverso.
Quindi forse non sei meglio del tuo amico scrittore, in fin dei conti? Hai scritto un libro e non ci credi; lui non legge un libro perché ci crede.
È un peccato che invece di avere una minoranza di «atei del clima», abbiamo una maggioranza di «agnostici del clima».
Ma non hai detto che la maggioranza degli americani voleva che gli Stati Uniti rimanessero nell’Accordo di Parigi? Hanno risposto così a quella domanda. Anch’io avrei risposto come loro. Peccato che quel tipo di opinioni siano selfie e non serbatoi di carbonio.
Quindi secondo te… non c’è speranza? No. Conosco troppe persone intelligenti e impegnate – non narcisisti di professione, ma ottime persone che dedicano il loro tempo, i loro soldi e le loro energie a migliorare il mondo – che non cambierebbero mai le loro abitudini alimentari, per quanto possano essere convinte di doverlo fare.
Queste persone intelligenti e impegnate come spiegherebbero il fatto di non essere disposte a mangiare in modo diverso? Nessuno glielo chiederà mai.
E se qualcuno glielo chiedesse? Potrebbero dire che l’allevamento è un sistema con molti aspetti negativi, ma che la gente deve pur mangiare, e i prodotti di origine animale adesso costano meno di quanto siano mai costati in passato.
E a questo tu come risponderesti? Direi che dobbiamo mangiare ma non siamo tenuti a mangiare prodotti di origine animale – un’alimentazione a prevalenza vegetale è sicuramente più salutare – ed è chiaro che non siamo tenuti a mangiarli nelle quantità abnormi che consumiamo adesso, che non hanno precedenti nella storia. Ma è una questione di giustizia economica, questo è vero. Dovremmo parlarne in questi termini, anziché usare la disuguaglianza per evitare di parlare della disuguaglianza.
Il 10 percento più ricco della popolazione globale è responsabile di metà delle emissioni di anidride carbonica, mentre la metà più povera è responsabile per il 10 percento. E spesso i meno responsabili del riscaldamento globale sono quelli che ne pagano le conseguenze maggiori. Prendi il Bangladesh, il paese considerato più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Si stima che sei milioni di bengalesi siano già stati costretti a lasciare le proprie case a causa di disastri ambientali come mareggiate, cicloni tropicali, siccità e inondazioni, e si prevede che altri milioni dovranno spostarsi nei prossimi anni. L’innalzamento dei mari potrebbe sommergere circa un terzo del paese, sradicando venticinque-trenta milioni di persone.
Sarebbe facile leggere questa cifra e non provare nulla. Ogni anno, il World Happiness Report stila la classifica dei cinquanta paesi più felici del mondo, basandosi sul punteggio che gli intervistati assegnano alla loro vita, da «la migliore vita possibile» a «la peggiore vita possibile».
Nel 2018, i tre paesi in cima alla classifica sono stati Finlandia, Norvegia e Danimarca. Quando sono stati resi noti i risultati, per un paio di giorni hanno monopolizzato la NPR e sembrava che tutti ne parlassero. Gli abitanti di Finlandia, Norvegia e Danimarca messi insieme sono circa la metà dei bengalesi destinati a diventare profughi climatici. Ma quei trenta milioni di bengalesi su cui pende la minaccia della peggior vita possibile non sono un buon argomento per la radio.
Il Bangladesh ha una delle impronte di carbonio inferiori al mondo, vale a dire che è uno dei paesi meno responsabili per i disastri di cui è vittima. Il bengalese medio è responsabile di 0,29 tonnellate di emissioni di CO2e all’anno, mentre un finlandese medio di trentotto volte tante: 11,15 tonnellate. Il Bangladesh, dove si consumano in media quattro chili di carne l’anno, è anche uno dei paesi più vegetariani al mondo. Nel 2018, il finlandese medio ha felicemente consumato quella quantità di carne in diciotto giorni – e senza considerare il pesce.
Possiamo salvare il mondo prima di cena
traduzione di Irene Abigail Piccinini
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