Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, qualcosa da fare, ma che non può fare e dice a sé stesso: gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. E poi arriva il tempo della migrazione e i ragazzi che lo curano nella sua gabbia gli dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, ecco cosa vorrei: la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!.
E gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile… Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. E poi uno si chiede Mio Dio, durerà molto, durerà per l’eternità?. E sai ciò che fa sparire questa prigione? Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso sino alla morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita.
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