Mille volte nella nostra vita ci è accaduto di ascoltare discorsi idioti. Ma ogni volta sapevamo che, attraverso la parola, la ragione e il dialogo, la presenza dell’ala dell’imbecillità si sarebbe attenuata, fino a farsi riassorbire nei confini del ragionevole. A quei tempi la chiamavamo egemonia culturale, e non era il predominio di una visione politica sull’altra, ma il dominio dell’intelligenza sulla stupidità. Ancora adesso quando mi domando a che cosa serva la cultura, l’unica risposta possibile mi sembra questa: la cultura è una strada o un contenitore che cerca di ricondurre a ragione gli istinti di cui pure è formata, e di riportare all’interno della civiltà le spinte che vorrebbero azzerarla.
Questo meccanismo è saltato. La battaglia mi sembra perduta. L’egemonia culturale è finita. Il valore della ragione era legato soprattutto al suo impiego materiale: studiare migliorava la vita. Da quando non succede più, la conoscenza ha perso valore. È un cambio epocale e porterà la guerra, prima o poi, perché la ragione per definizione comprende, distingue, rifiuta le semplificazioni e la logica amico/nemico, mentre la fede crede o non crede.
La colpa è anche nostra, per carità: in molti, per vanità e pigrizia, abbiamo preferito ascoltarci e farci ascoltare invece che ascoltare. Ma anche per gli uomini-spugna non esistono scuse: sanno leggere e scrivere, ormai, e potrebbero informarsi su tutto. Se credono alle sirene, ai guaritori e ai complotti degli Ufo, la colpa è anche loro. L’ignoranza non è più soltanto una condizione, oggi è anche una scelta. Siamo passati dall’egemonia culturale alla prevalenza del cretino.
Forse, mi dico, è anche questione di come il tempo ci appare: se tutto è presente e i fatti emergono per un istante prima di risprofondare nell’indistinto, non ha senso fare lo sforzo di metterli in fila: cercare una coerenza è inutile, si può dire tutto e il suo contrario, volta per volta, perché ogni istante è slegato dagli altri, un pulviscolo da assorbire senza farsi troppe domande.
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