Quando fui ammesso alla facoltà di Odontoiatria dell’Università del Cairo, nel 1976, mi toccò frequentare per un anno la facoltà di Scienze per assimilare le nozioni scientifiche di base necessarie a un dentista. In quell’istituto il professore di Chimica naturale era un musulmano attempato che sfoggiava sulla fronte il classico bozzo della preghiera, o zebiba, un altro indizio esteriore di quanto era devoto. Durante la prima lezione spiegò quello che ci avrebbe insegnato, ma la seconda volta, appena entrò nell’aula, afferrò il microfono e chiamò uno studente. Quando gli spiegarono che era assente, disse: Lo sapevo che quel ragazzo è un comunista. Quando lo vedete, ditegli che sarà bocciato in Chimica naturale. Boccio lui e chiunque altro di voi se scopro che è comunista.
Rimanemmo tutti ammutoliti per lo sgomento. Eravamo studentelli imberbi che avevano appena finito il liceo, e questo episodio ci insegnò parecchie cose. La prima fu che il professore collaborava con i servizi di sicurezza, altrimenti come faceva a essere informato delle simpatie politiche di un nostro compagno di studi? La seconda era che i suoi segni esteriori di devozione, la barba e la zebiba, non gli impedivano di commettere un’ingiustizia contro gli studenti che non gli stavano simpatici. La terza: perdere un anno o superare un esame non dipendevano solo da quanto lavoravamo o studiavamo, ma anche dalla capacità di seguire a capo chino la linea politica corretta.
Poi passai cinque anni a farmi indottrinare perché arrivassi a credere che non esistessero punti di vista autonomi riguardo all’unica verità che ci comunicavano i nostri professori. Eravamo tutti costretti a mandare a memoria ciò che diceva il docente per ripeterlo parola per parola agli esami. Il professore di Chimica organica, per esempio, si sganasciava dal ridere quando ci spiegava che se ingoi un topo non sei in grado di digerirlo perché la pelle dell’animale è coperta di indigeribili aminoacidi. Poi, all’orale, amava stupire gli studenti chiedendo: Che cosa succede se ingoi un topo?. Se lo studente riusciva a ripetere a pappagallo le frasi dette a lezione dal professore, allora otteneva un buon voto. Se invece rimaneva schifato o confuso, veniva bocciato per non aver presenziato alle lezioni. È così che imparammo che era più importante andare a lezione e memorizzare le battute del docente che acquisire vere nozioni scientifiche.
Dopo aver appreso volente o nolente questo trucchetto, mi laureai con lode e trovai lavoro come interno nel dipartimento di Chirurgia orale. In quel posto potevi capire tutta l’influenza del potere militare, dato che in ogni angolo vigeva una gerarchia da caserma, persino in reparto. Lì autorità non era sinonimo di responsabilità, bensì di possibilità di maltrattare i sottoposti. Ogni membro della gerarchia subiva gli abusi di chi gli stava sopra, dopodiché si rifaceva sui sottoposti. Gli abusi partivano dal preside e poi passavano a professore, aiuto, assistente, viceassistente, istruttore, interno e apprendista dentista. Erano relegati in quest’ultima categoria i più giovani e umili, che dovevano sopportare di essere angariati da chiunque. Mi ricordo che litigai con un viceassistente del dipartimento (due gradini sopra di me). Ero convinto del mio parere professionale, ma lui era tanto cocciuto a sostenere il suo che proposi di chiedere lumi a un professore anziano. Domandammo a uno di loro di risolvere la diatriba, poi gli riassunsi la questione e le due opinioni divergenti senza dire chi affermava cosa.
Il professore sorrise e chiese al viceassistente come la vedeva. Poi mi lanciò un’occhiata glaciale e mi mise in riga con queste parole: Per quel che ti riguarda, tutto quello che dice lui è giusto. È viceassistente e tu sei solo un tirocinante. In questo dipartimento ha ragione chi sta sopra.
La diffusione della mentalità fascista è un sintomo immancabile della sindrome della dittatura.
Racconto di una sindrome
traduzione di Giancarlo Carlotti
SchieleArt • VCG Wilson • 1913
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