Per immensi periodi di tempo, l’intelletto non ha prodotto nient’altro che errori: alcuni di questi si dimostrarono utili e atti alla conservazione della specie: chi s’imbatté in essi o li ricevette in eredità, combatté con maggior fortuna la sua battaglia per sé stesso e per la sua prole.
Tali erronei articoli di fede, che furono sempre ulteriormente tramandati e divennero infine quasi il contenuto specifico e basilare dell’umanità, sono per esempio questi:
che esistano cose durevoli,
che esistano cose uguali,
che esistano cose, materie, corpi,
che una cosa sia quel che essa appare,
che il nostro volere sia libero,
che quanto è per me bene lo sia anche in sé e per sé.
Solo molto tardi apparve chi negò e mise in dubbio tali proposizioni – solo molto tardi si fece innanzi la verità, come la forma più depotenziata della conoscenza.
Parve che con essa non si fosse più in grado di vivere, il nostro organismo era strutturato per il suo opposto; tutte le sue più elevate funzioni, le percezioni dei sensi e in generale ogni specie di sensazione collaboravano con quei primordiali errori di fondo che erano stati incorporati.
Non solo: quelle proposizioni divennero, anche all’interno della conoscenza, norme secondo le quali si misurava il «vero» e il «non vero» — fin nelle più lontane regioni della logica pura.
Cosicché la forza delle conoscenze non sta nel loro grado di verità, bensì nella loro età, nel loro essere incorporate, nel loro carattere di condizione di vita.
Erro nei articoli di fede
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