In Pasolini c’è una chiarezza della luce, quella del cielo nell’alba: la chiarezza delle cose, un chiaro che giunge da dentro le cose e le rivela ad uno sguardo che si apre dopo la notte. La chiarezza è un’epifania che si porge all’occhio, come in vetrina, in uno scrigno, è funzione scopica, spettacolare. Pensiamo alla visiva scansione degli oggetti, come si presentano nelle Ceneri di Gramsci.
C’è poi una chiarezza della musica, quella dello sgranamento fonico, la chiarezza del tempo misurato dai suoni. È una capacità, della bocca e dell’orecchio, di scandire e registrare ogni suono e nel suono ogni cadenza, ogni chiave differente, ogni variazione. Pensiamo alle istantanee sonore dei romanzi romani, alla lapidarietà perfetta e assoluta di quelle battute.
« Sarebbe così facile svelare / questa luce o quest’ombra… », dice Pasolini in una poesiola tra le tante dei primi anni Cinquanta [Roma 1950, Diario, Milano, 1960, p.17]. È proprio questa ansia di svelamento ciò che anima la sua storia, un’ansia che è un bisogno disperato di chiarezza: « per avvicinarsi a verità / fuggenti » basterebbe trovare « un suono un poco / più terso », « un più preciso alito » [ibidem]. Questo momento della lucidità, della precisione, percorre da un capo all’altro tutto Pasolini.
Sembrerebbe che la chiarezza sia il segno del referente, come la marca che lo distingue dalle illusioni, dai deliri: la chiarezza luminosa di un oggetto vero, anche soltanto per un attimo. La chiarezza come conquista delle cose chiare e distinte, senza aloni, come una purissima qualità del reale, splendente, anche se così difficile da raggiungere. Pensiamo alla chiarezza metallica della sua voce, di certe sue esposizioni orali, magari televisive, alla trasparenza di certi suoi ultimi scritti, proprio dove più paradossali apparivano le proposte del contenuto.
Ma la chiarezza, in Pasolini, è subito anche qualcosa di più difficile, di contorto, di aggrovigliato. Si pensi alle movenze barocche che nei testi si uniscono allo scatto della più dura secchezza, o, più spesso, alla semplice richiesta della pura trasparenza. C’è una dialettica complessa tra l’istanza di chiarezza e i garbugli della testualità pasoliniana; tanto che spesso la chiarezza diventa un’invocazione permanente, un’epifania sperata e di continuo inseguita. C’è un condizionale o un ottativo della chiarezza in Pasolini.
Forse gli oggetti chiari non sono quelli del referente, della realtà, ma quelli di un sogno. Forse la chiarezza è soltanto la luce bene a fuoco di un proiettore, quella che permette, nel buio, di produrre i fantasmi: forse la chiarezza è una tecnica della visione. La pasoliniana « chiara coscienza » potrebbe essere un elemento mescolato alla pari con i fantasmi. Quella « luce », che molti hanno riconosciuto come uno dei termini più ossessivi e ricorrenti in Pasolini, forse e soltanto al servizio di una visione, dentro la visione; un alone di luce, che circonda l’oggetto, lo strania, lo rivela in una claritas che è come l’epifania di un fantasma: « il congegno / che fa la conoscenza luce dell’oggetto » [Una polemica in versi, in Le ceneri di Gramsci, Milano, 1957, p. 124].
Scriveva Pasolini nel ’50:
«Ciò che adesso mi sta più a cuore è essere chiaro per me e per gli altri: di una chiarezza senza mezzi termini, feroce». [Lettera a Silvana Ottieri, inizi 1950]
E nel ’49:
«Vi auguro di lavorare con chiarezza e passione; io ho cercato di farlo» [Lettera a Ferdinando Mautino, ottobre 1949]
Nella forma inaugurale di questo binomio, poi tanto famoso, troviamo lo scatto decisivo: la chiarezza prende nome di ideologia.
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