Prima di tutto mi disse che ero un provinciale. Cosa mi credevo? Che la grande città fosse quel luogo di meraviglie e di godurie che credono certi, quelli che amano viaggiare? No, la grande città era proprio così, invece: un posto duro, cattivo, teso, assillato: tanta gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, deve arrivare. – Arrivare dove? – chiesi. – Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, forse, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch’esso, di vivere nella grande città. Guardali in faccia: stirati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso. E la tragedia sta proprio nel fatto che di questo loro non si avvedono, si ritengono privilegiati. Ascoltali, provocali, e sentirai la sicumera di questa gente, solo perché abita nella grande città. Questi sono i ceti medi italiani, avviliti dal padrone, e insieme sollecitati a muoversi nella direzione che più fa comodo al padrone. Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina muova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quello che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità. Sgobbano, corrono come allucinati dalla mattina alla sera, per comprarsi quello che credono di desiderare; in realtà quel che al padrone piace che si desideri.
Gente che corre
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