Gli alberi sono sempre stati per me i più assidui predicatori.
Io li venero, quando vivono in popolazioni e famiglie, in boschi e foreste. E più ancora li venero quando se ne stanno da soli.
Essi sono come degli dèi solitari. Non come eremiti che si siano sottratti a una qualche propria debolezza, ma come grandi uomini solitari, come Beethoven e Nietzsche.
Nelle loro cime stormisce il mondo, le loro radici riposano nell’infinito; sono i soli a non sperdervisi, ma anzi con ogni energia della propria esistenza essi tendono a un unico scopo: portare a compimento la legge che in essi dimora, realizzare la propria intima fisionomia, interpretare se stessi.
Niente è più santo, niente è più significativo di un bell’albero forte.
Quando un albero è stato segato tutt’intorno alla base e mostra al sole le nude ferite mortali, allora sui lembi lucenti del suo ceppo e del suo sepolcro si può leggere l’intera sua storia; negli anelli e nelle concrescenze si trova fedelmente annotata ogni lotta, ogni dolore, ogni malattia, ogni felicità e crescita, anni miseri e anni rigogliosi, attacchi respinti, superate tempeste.
E ogni contadinesco sa che il legno più nobile e più sodo ha gli anelli più esigui, che nell’alto dei monti e in condizioni di persistente pericolo crescono i tronchi più rigogliosi, i più resistenti ed esemplari.
Gli assidui predicatori
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