Ricordo molto chiaramente la prima volta che mi sono imbattuto in D. H. Lawrence come scrittore di qualcosa di diverso dalla fiction. A scuola stavamo studiando Amleto, e leggevamo le solite analisi critiche di A. C. Bradley, G. Wilson Knight e quella, un po’ più di moda, di Jan Kott (Shakespeare nostro contemporaneo). Ma il mio professore mi ha indirizzato anche su uno strano scritto di Lawrence intitolato Il Teatro, in Crepuscolo in Italia 1, che riguardava una rappresentazione di Amleto. Volevo ridurre il saggio alla stretta utilità dell’esame ma non sapevo cosa fosse né come doveva essere letto. Ovviamente era su Amleto (una «dichiarazione della più importante posizione filosofica del Rinascimento»), ma era anche una sorta di racconto, una reinvenzione di un’esperienza e di un luogo reali. I saggi critici che avevo letto fino a quel momento sembravano tutti degli esempi accurati e compiuti di ciò per cui li stavo leggendo, ovvero i compiti a casa. Eppure, in Teatro non c’era ombra dell’accuratezza forzata dei compiti a casa, e se ciò aveva un certo fascino, sollevava però dubbi sulla legittimità e sul valore dello scritto. Riflettendoci, quello che mi mancava, penso, era la monotonia istituzionalizzata che pervadeva così tanto la critica giunta a definire lo studio dell’Inglese all’università. Era davvero enorme il distacco, in termini di divertimento, tra i romanzi e le poesie e le cose che ci si aspettava di leggere su di loro. Almeno fino a quando, nella settimana dedicata a Thomas Hardy, Lawrence non irruppe di nuovo e improvvisamente non ci fu più alcun distacco. Prima sottolineava, nel suo modo piuttosto semplice, che i personaggi di Hardy «scoppiano inaspettatamente e fanno qualcosa che nessuno farebbe», e dopo faceva dichiarazioni metafisiche sul «grande potere tragico» di Egdon Heath. Ho letto Study of Thomas Hardy per la luce che riversava su Hardy ma anche come espressione rivelatoria del suo autore: tanto specchio quanto finestra. Fino ad allora la non-fiction esisteva o come una disciplina completamente diversa (la Storia, per esempio) oppure come una sorta di scaletta per aiutare a padroneggiare poesie e romanzi. Questi lavori di Lawrence rappresentarono il primo barlume di un rapporto più ambiguo tra critica e fiction, tra le necessarie restrizioni della disciplina accademica e la vita nomade della mente. (Lawrence si è spinto notoriamente oltre, rifiutando l’angusta vita della mente per «un credo nel sangue, nella carne, perché più saggi dell’intelletto»).
Grande potere tragico
Quotes per David Herbert Lawrence
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