Henry James - Gli amici degli amiciNelle ghost stories di Henry James (1843-1916) il soprannaturale è invisibile (presenza del male al di là d’ogni immaginazione come nel famoso Giro di vite) o quasi (inafferrabile sdoppiamento di sé nel Jolly Corner). Comunque, non è l’immagine visiva del fantasma che conta, ma il nodo dei rapporti umani da cui il fantasma è evocato o che il fantasma contribuisce ad allacciare. Una storia di relazioni mondane impalpabili come in Gli amici degli amici (o forse meglio Amici di amici) si carica di vibrazioni: ogni vivente proietta fantasmi, il confine tra persone in carne e ossa ed emanazioni psichiche è labile; il punto di partenza parapsicologico si duplica e moltiplica. Come spesso in James il personaggio apparentemente neutrale che sta dietro la voce narrante ha un ruolo decisivo proprio in ciò che non dice: qui, come nel Giro di vite, è una voce di donna, che stavolta non nasconde la sua passione dominante, la gelosia, e la sua tendenza all’intrigo.
Trovo, come tu prevedevi, che ci siano molte cose interessanti, ma poco che serva a risolvere la questione di fondo, cioè la possibilità di pubblicazione. I suoi diari sono meno sistematici di quanto sperassi; ella aveva semplicemente l’abitudine benedetta di annotare e di raccontare. Riepilogava, metteva da parte, e sembra, in verità, essersi lasciata sfuggire raramente qualche bella storia da raccontare senza acchiapparla al volo. Alludo, naturalmente, non tanto alle cose che veniva a sapere, quanto a quelle che vedeva e sentiva.
Scrive talvolta di sé, talvolta di altri, altre ancora di sé e degli altri. Ed è sotto quest’ultimo aspetto che solitamente è più viva. Però non è quando è più viva, lo capisci bene, che le sue cose sono sempre le più pubblicabili. A dire la verità, è spaventosamente indiscreta, o quanto meno ha tutto ciò che è necessario per farmi diventare tale. Prendiamo, per esempio, il breve brano che ti mando dopo averlo diviso per tua utilità in tanti capitoletti. Costituisce un piccolo libro bianco che io ho trascritto, e ha il merito di essere quasi una cosa compiuta, un insieme intelligibile. Sono pagine che evidentemente risalgono a molti anni fa. Ho letto con il più vivo interesse la testimonianza che qui viene fatta in modo così circostanziato, e ho fatto del mio meglio per raccapezzarmi tra le cose prodigiose che esse lasciano intuire. Queste cose sarebbero stupefacenti, non ti pare? per qualsiasi lettore, ma riusciresti a immaginare anche lontanamente che io possa presentare al mondo un documento simile, anche se lei stessa aveva espresso il desiderio che il mondo ne beneficiasse quando non ha dato ai suoi amici né un nome, né le iniziali? Hai qualche idea delle loro identità? Lascio a lei la parola.
I So benissimo, naturalmente, di essermene assunta le conseguenze, ma questo non serve a migliorare niente. Sono stata io a parlargli di lei per prima, quando lui non l’aveva mai sentita nemmeno nominare. Anche se non mi fosse capitato di parlarne, qualcun altro ci avrebbe pensato; in seguito ho cercato di trovare consolazione in questo pensiero. Ma un pensiero dà magra consolazione: l’unica consolazione che conta davvero nella vita è non essere stati sciocchi. E questo è un piacere che indubbiamente non godrò mai. «Sì, dovresti conoscerla e parlarne con lei»: è questo che gli dissi subito.
«Ciascuno ama il proprio simile». Gli spiegai chi era lei, e gli dissi che erano simili perché, se lui aveva avuto in gioventù una strana esperienza, lei ne aveva avuta una analoga pressappoco nello stesso periodo. Era un episodio, ben noto ai suoi amici, che lei veniva continuamente invitata a raccontare. Era una donna affascinante, intelligente, graziosa, infelice, e nondimeno era questo episodio che all’inizio aveva fatto parlare di lei.
All’età di diciott’anni, mentre si trovava all’estero con una zia, aveva avuto la visione di uno dei suoi genitori nel momento della morte. Suo padre si trovava in Inghilterra, a centinaia di chilometri di distanza, e per quanto lei ne sapesse, non era morto né morente. Si trovava, un giorno, nel museo di una grande città straniera. Era entrata da sola, precedendo i suoi compagni, in una saletta che conteneva qualche famoso capolavoro, e l’aveva trovata occupata in quel momento da altre due persone. Una di queste era un vecchio custode; il secondo, prima che lo osservasse bene, lo prese per uno straniero, un turista. Si accorse soltanto che era a capo scoperto ed era seduto su una panca. Nell’attimo in cui i suoi occhi si posarono sull’uomo tuttavia ella riconobbe sbalordita suo padre, il quale, come se da tempo l’aspettasse, la guardava con espressione stranamente turbata, con un’inquietudine che era quasi di rimprovero. Lei gli corse incontro con un grido sgomento: «Papà, che cosa c’è?» ma al grido seguì una sensazione ancora più acuta quando questi, al suo movimento, semplicemente scomparve, lasciandola con il custode e i suoi amici, che nel frattempo l’avevano raggiunta e le stavano preoccupati intorno. Queste persone, la guida, la zia, i cugini, furono quindi in qualche modo testimoni dell’accaduto, o quanto meno dell’emozione suscitata in lei, e a questa testimonianza si aggiunse poi quella di un medico che faceva parte di una delle comitive e che fu immediatamente informato. Questi le prescrisse qualcosa per tranquillizzarla, ma disse anche alla zia, prendendola da parte: «Stia a vedere se non è successo qualcosa a casa sua». E qualcosa era effettivamente successo: il suo povero padre, all’improvviso, era morto quella stessa mattina. La zia, sorella della madre, ricevette prima della fine di quel giorno un telegramma che la informava del triste evento e le chiedeva di preparare la nipote alla notizia. La nipote era già preparata, e il ricordo di quella apparizione, naturalmente, rimase indelebile nella ragazza. Tutti noi, come suoi amici, ne fummo messi a conoscenza, e di nascosto ne parlavamo l’un l’altro. Trascorsero dodici anni, e divenuta una donna che dopo un infelice matrimonio viveva separata dal marito, ella ci interessava per altri motivi, ma essendo molto diffuso il nome che ora portava, ed essendo per di più in corso il procedimento di separazione legale, che non era di sicuro un titolo di merito, avevamo generalmente l’abitudine di riferirci a lei chiamandola sai, quella che ha visto il fantasma di suo padre.
In quanto a lui, povero caro, lui aveva visto il fantasma di sua madre, proprio così! Non avevo mai sentito parlare di questa storia fin quando, consolidata la nostra amicizia, egli fu indotto, approfittando dell’argomento di un nostro discorso, ad accennare alla vicenda, ispirandomi così l’idea di fargli sapere che aveva un rivale in questo campo, una persona con cui poteva confrontare l’esperienza vissuta. In seguito questa vicenda, forse perché continuavo indiscretamente a ripeterla, diventò per lui qualcosa di simile a un’etichetta in società, ma non era stato a questo proposito che, un anno prima, mi era stato presentato. Egli aveva altri meriti, così come li aveva anche lei, poverina. Posso dire onestamente che me ne resi conto perfettamente fin dall’inizio, che li scoprii prima ancora che lui scoprisse i miei. Ricordo come restai colpita anche allora dal fatto che egli li avesse scoperti più prontamente, proprio perché avevo trovato, anche se non per diretta esperienza, un’analogia con la strana vicenda che aveva raccontato. Risaliva, questa vicenda, come quella vissuta da lei, a una dozzina d’anni prima, un anno in cui egli era rimasto, per qualche motivo, a trascorrere le vacanze a Oxford. Aveva trascorso sul fiume quel pomeriggio d’agosto. Ritornato alla sua camera quand’era ancora pieno giorno, trovò sua madre che stava lì davanti, come se i suoi occhi fossero stati sempre fissi sulla porta. Aveva ricevuto una lettera da lei, quel mattino, inviata dal Galles dove ella viveva con il padre. Alla sua vista, la madre aveva sorriso radiosamente tendendogli le braccia, poi, quando lui si era fatto avanti aprendo gioiosamente le sue, ella era scomparsa d’improvviso. Le scrisse quella sera stessa, raccontandole l’accaduto, e questa lettera è stata gelosamente conservata.
Il mattino dopo aveva appreso che la madre era morta. A questo punto della nostra conversazione, rimase vivamente colpito dalla coincidenza quasi prodigiosa che fui in grado di raccontargli. Mai gli era capitato di udire di un caso simile al suo. Certo dovevano conoscersi, la mia amica e lui, e altrettanto certamente dovevano avere qualcosa in comune. Avrei pensato io a combinare l’incontro, vero? se a lei non dispiaceva, naturalmente, in quanto a lui non aveva proprio niente in contrario. Promisi di parlarne con lei il più presto possibile, e potei farlo quella settimana stessa. Anche lei non aveva niente in contrario, era dispostissima a conoscerlo. Eppure l’incontro, nel senso comune della parola, non sarebbe mai avvenuto.
II Questa è soltanto metà del mio racconto, il modo straordinario in cui l’incontro fu impedito. La causa di ciò fu una serie di incidenti fortuiti, ma questi incidenti, proseguiti nel corso degli anni, diventarono, per me e per gli altri, oggetto di divertiti commenti. All’inizio essi trovarono la cosa piuttosto buffa, poi col tempo ne furono alquanto infastiditi.
La cosa strana è che tutti e due erano ben disposti: non che fossero indifferenti alla cosa, e tanto meno contrari. Era, questo, uno dei capricci del caso, favorito anche – immagino – da una divergenza piuttosto netta dei loro interessi, delle loro abitudini. I suoi interessi erano concentrati nell’ufficio, nel suo interminabile lavoro di ispettore che gli lasciava ben poco tempo libero e continuamente lo faceva viaggiare, costringendolo a disdire gli impegni che prendeva. La compagnia gli piaceva, ma ne trovava ovunque e la prendeva come capitava. Non sapevo mai dove si trovasse in un dato momento, e succedeva che non lo vedessi anche per mesi di fila. Lei, dal canto suo, viveva praticamente in periferia, a Richmond, e non andava mai fuori. Era una donna distinta, ma non mondana, ed era consapevole, come si dice, della sua condizione. Decisamente orgogliosa e alquanto eccentrica viveva la sua vita così come l’aveva programmata. Parecchie cose si potevano fare con lei, ma non era possibile convincerla a frequentare la società. Questo andava oltre quelli che per lei erano i limiti della convenienza, e questi limiti consistevano nella compagnia di una sua cugina, in una tazza di tè e nel panorama che vedeva. Il tè era buono, ma il panorama era angusto, anche se non in modo così irritante, direi, come la cugina, una vecchia zitella insopportabile che si trovava con lei durante la visita al museo e ora coabitava con lei.
Questa sua convivenza con una parente di rango inferiore, rapporto che aveva in parte una motivazione economica (lei proclamava che la sua compagna era un’impareggiabile organizzatrice) era una di quelle innocenti bizzarrie che dovevamo perdonarle. Un’altra di queste era il suo rispetto delle convenienze che comportava la sua separazione dal marito. Un rispetto spinto all’estremo, che molti consideravano perfino morboso. Si guardava dal prendere la minima iniziativa, si creava ogni sorta di scrupoli, sempre pronta a sospettare, e anche a ricordare, dovrei forse dire, una mancanza di riguardo: era una delle poche donne da me conosciute che questa particolare condizione aveva reso riservata anziché disinibita. Povera cara, era di una tale sensibilità! Particolarmente rigidi erano i limiti che aveva posto alle possibili attenzioni da parte degli uomini: era un suo pensiero fisso che il marito attendesse solo l’occasione per rinfacciarle qualcosa. Scoraggiava, quando non impediva, le visite di uomini in età non avanzata, e diceva sempre che la prudenza non è mai troppa. Quando le accennai per la prima volta che un mio amico era stato segnato dal destino nel suo stesso modo soprannaturale, la misi nella condizione di poter dire liberamente: «Oh portamelo qui per farmelo conoscere!». Io sarei probabilmente riuscita a portarlo a casa sua e si sarebbe creata così una situazione perfettamente innocente, o quanto meno relativamente semplice. Ma lei non disse nulla del genere, si limitò a rispondere: «Devo proprio conoscerlo, certo; sì, vedrò di incontrarlo». Questa fu la causa del ritardo iniziale, e in questo frattempo accaddero parecchie cose. Una di queste fu che ella, grazie al suo fascino, si fece sempre più amici, col passare del tempo, e capitava regolarmente che questi amici fossero anche amici di lui, quanto bastava per accennarne nel corso della conversazione. Era davvero strano che senza appartenere allo stesso mondo o, come si dice con un’orribile espressione, allo stesso ambiente, questa coppia sconcertante si trovasse a imbattersi così spesso nelle stesse persone, facendole partecipare allo stupito coro generale. Lei aveva amiche che non si conoscevano tra loro e che tuttavia puntualmente le parlavano di lui. Aveva anche una sua particolare originalità, quella capacità intrinseca di interessare che la faceva considerare da ciascuno di noi come una sorta di risorsa privata, da coltivare gelosamente, più o meno in segreto, come una persona che non si frequenta in società, che non era da tutti, indiscriminatamente, avvicinare, la cui amicizia era quindi particolarmente difficile e particolarmente preziosa. La frequentavamo ciascuno per proprio conto, con diversi appuntamenti e a diverse condizioni, e ritenevamo opportuno, per la nostra armonia, non parlarne tra noi. C’era sempre qualcuno che aveva sue notizie più recenti di un altro. Ricordo una stupida donna che per molto tempo, grazie a tre semplici visite a Richmond, godette fama tra gli esclusi di essere in rapporti di intimità con un mucchio di persone eccezionalmente intelligenti.
Ognuno di noi ha avuto amicizie che aspirava a mettere in contatto, e ognuno ricorda che le sue migliori aspirazioni non sempre sono state coronate dal massimo successo, ma non credo che si sia mai verificato un caso in cui il fallimento sia stato così direttamente proporzionale alla quantità delle pressioni esercitate. E in questo caso era forse proprio la quantità delle pressioni la cosa più singolare. La mia amica e il mio amico recitavano ciascuno, per me e per gli altri, l’assurda trama di una farsa irresistibile. Il motivo addotto inizialmente era venuto meno col passar del tempo, e cinquanta altri migliori erano fioriti sopra di questo. Erano tutti e due spaventosamente simili: avevano le stesse idee, gli stessi vezzi e gusti, gli stessi pregiudizi, le stesse superstizioni, le stesse fisime; dicevano le stesse cose e talvolta le facevano anche, avevano simpatia e antipatia per le stesse persone e per gli stessi luoghi, per gli stessi libri, autori e stili letterari; avevano punti di rassomiglianza perfino nell’aspetto e nei lineamenti.
Costituiva una loro prerogativa che nel parlare comune fossero ugualmente garbati e quasi altrettanto piacevoli. Ma la principale affinità, oggetto di stupore e di commenti, era la loro singolare fobia a farsi fotografare.
Erano queste le uniche persone di cui fossi a conoscenza che non erano mai state prese e che erano irriducibilmente contrarie a permetterlo.
Semplicemente non volevano per nessuna cosa al mondo. Io me n’ero lamentata apertamente, soprattutto con lui, che così vanamente desideravo mettere in cornice sulla mensola del caminetto del mio salotto. Era in ogni caso, tra tutti i motivi, il più importante per cui dovevano conoscersi, tutti gli altri motivi essendo ridotti a nulla per via della strana legge che li aveva portati a chiudersi le porte in faccia, a essere come due secchi calati alternativamente nel pozzo, come due capi della sega, due partiti in uno Stato, così che quando uno era su l’altra era giù, quando uno era fuori l’altra era dentro, e per nessun motivo né l’uno né l’altra entravano in una casa fin quando uno dei due non l’aveva lasciata né la lasciavano finché uno dei due non era ancora arrivato. Arrivavano soltanto quando uno dei due aveva ormai desistito, che era anche il momento stesso in cui se ne andavano.
Erano, insomma, alternativi e incompatibili, si eludevano con una perseveranza che poteva essere spiegata soltanto se fosse stata concertata. Ed era invece così poco concertata che alla fine, e cioè dopo parecchi anni, la cosa aveva finito col deluderli e infastidirli. Non credo che la loro curiosità fosse particolarmente viva fin quando non si era rivelata assolutamente vana.
Molto era stato fatto, naturalmente, per aiutarli, ma tutto questo non si risolveva altro che in ostacoli sui quali inciampavano. Per offrire qualche esempio, avrei dovuto prendere appunti, ma ricordo soltanto che nessuno dei due riuscì mai a essere presente a una cena nell’occasione giusta. L’occasione giusta per l’uno era l’occasione sbagliata per l’altra. Nell’occasione sbagliata erano ambedue puntualissimi, e non c’erano altro che occasioni sbagliate.
Erano gli stessi fenomeni fisici che congiuravano, e a essi si aggiungevano le condizioni di salute. Un raffreddore, un’emicrania, un lutto, un temporale, un po’ di nebbia, un terremoto, un qualche cataclisma inevitabile intervenivano.
Tutta la vicenda era qualcosa di più di un semplice scherzo.
Eppure doveva essere preso come uno scherzo, anche se non si poteva non pensare che lo scherzo avesse fatto diventare grave la situazione, che avesse provocato in ambedue una consapevolezza, un’inquietudine, una vera e propria paura dell’incidente definitivo, l’unico che sarebbe stato una novità, l’incidente che li avrebbe fatti incontrare. L’effetto ultimo dei casi precedenti era quello di accendere questo sentimento istintivo. Provavano come un senso di colpa, e, forse, anche l’uno per l’altra. Tanti preparativi, e tutti frustrati: che cosa di veramente buono avrebbe potuto giustificarli? Un semplice incontro sarebbe stato semplicemente banale. Dopo tanti anni, mi domandavo spesso, potevo immaginare che si trovassero stupidamente uno davanti all’altra? se quello scherzo li aveva annoiati, ancor più annoiati potevano essere da qualcos’altro. Facevano ambedue le stesse identiche riflessioni, e ciascuno, in qualche modo, era sicuro di intuire quelle dell’altro.
Penso davvero che fu questa singolare diffidenza, alla fine, che prese il controllo della situazione. Voglio dire che se per i primi anni non riuscirono a incontrarsi per cause di forza maggiore, ne presero in seguito l’abitudine perché, come dire? erano diventati nervosi. Ci voleva davvero una caparbia forza di volontà per sostenere una cosa insieme così regolare e così assurda.
III Quando, per coronare la nostra lunga conoscenza, accettai la sua ennesima proposta di matrimonio, si diceva in giro, lo so, che avevo posto come condizione il dono di una sua fotografia. Questo era tanto vero che avevo rifiutato di donargli la mia senza avere la sua in cambio. In ogni caso, lo ebbi finalmente ritratto, nella sua spiccata distinzione, sulla mensola del camino, e lì, il giorno in cui ella venne a farmi visita per farmi le sue congratulazioni, fu più vicina a vederlo di quanto fosse mai capitato. Lui le aveva dato dunque un esempio che la invitai a seguire: lui aveva sacrificato quella sua fisima, perché lei non faceva altrettanto? Anche lei doveva regalarmi qualcosa per il mio fidanzamento: non voleva darmi il pezzo mancante? Lei rise e scrollò il capo; e quando scrollava il capo il suo impulso sembrava venire da lontano, come la brezza che agita un fiore. Il pezzo mancante del ritratto del mio futuro marito era il ritratto della sua futura sposa. Ma lei aveva preso la sua decisione, e non poteva modificarla più di quanto potesse giustificarla. Era un partito preso, un entètement, un voto: sarebbe vissuta e morta senza essere fotografata. Ora era lei sola che non era mai stata fotografata, e proprio questo le piaceva, la faceva sentire molto più originale. Si rallegrò della resa del suo ex compagno di fede, e restò molto tempo ad osservare la fotografia, a proposito della quale non fece alcuna particolare osservazione, anche se la voltò perfino per vederne il retro. A proposito del nostro fidanzamento si mostrò molto affettuosa, piena di cordialità e di simpatia. «Tu lo conosci da più tempo ancora di quanto io non lo conosca» osservò «e sembra davvero moltissimo tempo». Si rendeva conto che noi due avevamo fatto tanto cammino insieme, e che era inevitabile adesso che riposassimo insieme. Di tutto ciò sono sicura, perché ciò che seguì è così strano che provo quasi un senso di sollievo nel ricordare il momento fino al quale i nostri rapporti proseguirono naturali come sempre. E fui proprio io che, in un improvviso momento di follia, li modificai e li guastai per sempre. Ora mi rendo conto che ella non mi offrì alcun pretesto, e che io soltanto ne vidi uno nello strano modo con cui guardava quel bel volto incorniciato sopra al camino. Come avrei voluto, allora, che lei lo guardasse? Quello che avevo desiderato fin dall’inizio era che lei si interessasse a lui. Ebbene, era questo che desideravo ancora, fino a quando lei non mi promise che questa volta mi avrebbe realmente aiutato a rompere lo stupido incantesimo che non li faceva mai incontrare. Mi ero accordata con lui perché facesse la sua parte se lei avesse fatto con altrettanta convinzione la sua. Mi trovavo in una situazione diversa, adesso, nella situazione di dover rispondere per lui. Potevo garantire senza alcuna esitazione che alle cinque del sabato successivo si sarebbe trovato senz’altro in quel posto. Si trovava in quel momento fuori città per una questione urgente ma, impegnatosi a mantenere alla lettera la sua promessa, sarebbe ritornato appositamente e con il debito anticipo. «Ne sei assolutamente sicura?» ricordo che lei mi domandò, grave in viso e pensierosa; mi parve che fosse lievemente impallidita.
Era stanca, era indisposta: un peccato che lui dovesse vederla, dopo tanta attesa, in un momento come quello. Se soltanto fosse riuscito a vederla cinque anni prima! Risposi tuttavia che questa volta ne ero certa e che il successo, quindi, sarebbe dipeso unicamente da lei. Alle cinque in punto di sabato lei l’avrebbe trovato seduto su quella particolare sedia che le indicai, la sedia sulla quale sedeva abitualmente, sulla quale, ma questo non lo dissi, era seduto la settimana prima, quando mi aveva posto quella domanda sul nostro futuro in modo tale da farmi decidere. Lei guardò la sedia in silenzio, così come aveva osservato la fotografia, mentre io le ripetevo per l’ennesima volta che era troppo assurdo che in qualche modo non fosse possibile presentare all’amica più cara la propria metà. «Sono io la tua amica più cara?» domandò con un sorriso che per un attimo ridiede vita alla sua bellezza. Per tutta risposta la strinsi al petto, poi ella disse: «Bene, verrò. Ho una tremenda paura, ma puoi contare su di me».
Quando se ne fu andata, cominciai a domandarmi di che cosa avesse paura, perché aveva parlato con tono molto convinto. Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, ricevetti da lei un breve messaggio: al suo ritorno a casa aveva trovato l’annuncio della morte di suo marito. Erano sette anni che non lo vedeva, tuttavia desiderava che apprendessi la notizia in questo modo, prima che ne venissi a conoscenza in un altro. Questo evento faceva però così poca differenza nella sua vita, per quanto fosse strano e triste a dirsi, che avrebbe tenuto fede scrupolosamente all’appuntamento. Mi rallegrai per lei, pensando che quanto meno la differenza sarebbe stata per lei l’avere un po’ di soldi in più; ma perfino in questo frangente, non dimenticando che ella aveva detto di aver paura, mi sembrò di intuire un motivo di questo suo stato d’animo. La sua paura, col trascorrere della sera, diventò contagiosa e questo contagio prese nel mio cuore la forma d’un panico improvviso.
Non era gelosia, era soltanto paura della gelosia. Mi diedi della sciocca per non aver atteso il giorno in cui fossimo stati marito e moglie. Dopo di allora, mi sarei sentita in qualche modo più sicura. Si trattava di attendere soltanto un altro mese, una cosa davvero da poco per persone che avevano atteso così a lungo. Era abbastanza evidente che si sentiva nervosa, e ora che era libera il suo nervosismo non sarebbe stato meno. Che cos’era stato allora, se non un improvviso presentimento? Fino ad allora, ella era stata vittima di una serie di interferenze, ma adesso era possibile che ne divenisse lei la causa. E in tal caso la vittima sarei stata proprio io. Che cos’era stata quell’interferenza se non un segno della Provvidenza che indicava un pericolo? Ed ero io, naturalmente, il bersaglio di questo pericolo, povera me. Il pericolo era stato fin allora sventato da una serie di imprevisti senza pari nella loro frequenza, ma il dominio del caso era adesso evidentemente alla fine. Avevo l’intima convinzione che ambedue sarebbero giunti puntuali all’appuntamento.
Avevo sempre più l’impressione che stavano avvicinandosi, convergendo.
Erano come impegnati nel gioco di chi cerca un oggetto nascosto. L’uno e l’altra erano adesso vicini al fuoco. Avevamo parlato di rompere l’incantesimo: ebbene ora sarebbe stato effettivamente rotto, salvo assumere semplicemente un’altra forma, e diventare padrone dei loro incontri, così come li aveva fatti prima eludere. E su un pericolo come questo non potevo restare tranquillamente a riflettere: non riuscivo a prendere sonno, e a mezzanotte mi agitavo ancora inquieta. Alla fine sentii che c’era un modo soltanto per sconfiggere lo spettro. Se il dominio del caso era al termine, dovevo essere io a succedergli. Mi misi al tavolino e scrissi in fretta un messaggio, che egli avrebbe trovato al suo ritorno; poi, essendo ormai a letto i domestici, uscii fuori a capo scoperto nella strada deserta e spazzata dal vento per andare a imbucarlo nella più vicina cassetta delle poste. Il messaggio diceva che non sarei potuta essere in casa quel pomeriggio, come avevo sperato, e che lui doveva quindi rimandare la visita all’ora di cena.
Questo voleva dire che mi avrebbe trovata da sola.
IV Quando lei si presentò alle cinque, come d’accordo, naturalmente mi sentii falsa e meschina. La mia azione era stata dettata da una momentanea follia, ma ora dovevo almeno, come si dice, adeguarmi. Si trattenne un’ora; lui non si presentò, naturalmente, e io potei soltanto proseguire la mia perfida messinscena. Avevo pensato infatti che fosse meglio lasciarla venire: per quanto assurdo mi possa ora sembrare, avevo pensato che questo potesse sminuire la mia colpa. Eppure, mentre lei sedeva davanti a me, così visibilmente pallida e stanca, prostrata da tutto ciò che si era aperto in lei con la morte del marito, provai davvero un’acuta trafittura di pena e di rimorso.
Se non le dissi subito ciò che avevo fatto, è perché provavo troppa vergogna.
Simulai stupore, e continuai a simulare fino all’ultimo; protestai che se mai avevo avuto fiducia, l’avevo avuta quel giorno. Arrossisco nel narrare questa storia, e questa la considero la mia punizione. Non parlai di lui che in tono indignato; escogitai supposizioni, attenuanti; ammisi sconcertata, con l’avanzare delle lancette dell’orologio, che la loro sorte non era mutata.
Lei sorrise, a questa immagine della loro sorte, ma appariva inquieta, diversa dal solito: l’unica cosa che mi sosteneva, strano a dirsi, era il fatto che indossava il lutto, non grande ostentazione di gramaglie, ma un semplice nero uniforme. Sul cappello aveva tre piccole piume nere. Aveva anche un manicotto di astrakan. Questo fatto, dopo averci riflettuto sopra, mi rasserenò un po’. Mi aveva scritto, infatti, che l’improvviso evento non faceva per lei alcuna differenza, ma evidentemente quel tanto di differenza c’era. Se era disposta a rispettare le solite convenzioni, perché non osservava allora anche quella di non uscire per il tè durante i primi giorni? C’era una persona che desiderava a tal punto conoscere che non poteva aspettare la sepoltura del marito.
Questa impazienza così mal dissimulata mi consentiva di essere abbastanza dura e inflessibile per poter proseguire il mio odioso inganno, ma nello stesso tempo, col trascorrere di quell’ora, credetti di ravvisare in lei qualcosa di più profondo ancora della delusione, un qualcosa dissimulato non altrettanto bene. Intendo dire uno strano intimo sollievo, come un lento, sommesso soffio espirato quando un pericolo è passato. Ciò che accadde durante quell’ora vuota che trascorse con me, fu che alla fine ella rinunciò a lui.
Rinunciò a lui per sempre. Della cosa scherzò con quanto garbo non ho mai visto, ma nonostante ciò quella fu una data importante nella sua vita. Con la sua mite naturalezza parlò di tutte le altre occasioni mancate, del lungo gioco a mosca cieca, della bizzarria senza pari di quella relazione. Perché una relazione era, o era stata, sì o no? Questa era l’assurdità della cosa. Quando si alzò per andarsene, le dissi che quella era più che mai una relazione, ma che non avevo il coraggio, dopo quanto era avvenuto, di proporle un’altra occasione a breve scadenza. Era evidente che l’unica occasione concreta si sarebbe presentata il giorno del mio matrimonio. Naturalmente lei sarebbe stata presente alle mie nozze, vero? E c’era da sperare, almeno, che anche lui ci fosse. «Se ci sono io, non ci sarà lui!» Ricordo ancora l’acuta vibrazione della sua voce, e la sua risata. Dovetti ammettere che poteva esserci qualcosa di vero. Ciò che contava, quindi, era essere prima tranquillamente sposati.
«Questo non ci servirà. Nulla ci servirà!» disse mentre mi baciava. «Mai, non lo incontrerò mai!» Fu con queste parole che mi lasciò.
Potevo sopportare la sua delusione, come l’ho chiamata, ma quando, un paio d’ore più tardi, ricevetti lui per cena, mi accorsi che non potevo sopportare la delusione di lui. L’impressione che la mia messinscena avrebbe potuto fargli non l’avevo tenuta particolarmente in conto, ma il suo effetto fu la prima parola di rimprovero che mai fosse uscita dalla sua bocca. Dico rimprovero perché questa parola è un po’ esagerata per descrivere i termini con cui egli mi fece comprendere la sua sorpresa per il fatto che, in quella straordinaria circostanza, non avessi trovato un qualche modo per non privarlo di un’occasione come quella. In realtà avrei potuto trovare il modo per non uscire o per consentire comunque che il loro incontro avvenisse ugualmente.
Probabilmente si sarebbero trovati bene insieme, nel mio salotto, anche senza di me.
A queste parole non resistetti: confessai la mia azione vergognosa e il suo miserabile motivo. Non avevo disdetto l’appuntamento con lei, e nemmeno ero uscita di casa; lei era stata in casa mia, e dopo averlo atteso per un’ora, se n’era andata nella convinzione che egli avesse mancato all’appuntamento per sua colpa.
«Deve avermi giudicato un vero e proprio bruto!» esclamò lui.
«Ha detto di me…» e ricordo ancora che quasi impercettibilmente trattenne il fiato nella pausa «… ciò che aveva il diritto di dire?» «Ti assicuro che non ha detto nulla che rivelasse il minimo risentimento. Ha guardato la tua fotografia, ne ha perfino voltato il dorso, dove, per caso, è scritto il tuo indirizzo. Eppure questo non ha provocato in lei alcuna reazione apparente. Non le importa molto di tutto ciò».
«E allora perché hai paura di lei?» «Non era di lei che avevo paura. Era di te».
«Pensavi che sarei così sicuro di innamorarmi di lei? Non hai mai alluso prima a questa eventualità» soggiunse, mentre io restavo in silenzio. «Per quanto tu l’abbia descritta come una persona ammirevole, non è stato in questa luce che me l’hai mostrata».
«Vuoi dire che, se così fosse stato, saresti riuscito dopo tanto tempo a trovare il modo di vederla? A quel tempo non avevo questa paura» soggiunsi. «Non ne avevo altrettanti motivi».
Lui mi baciò, a queste parole, e quando ricordai che lei aveva fatto altrettanto un paio d’ore prima, ebbi per un attimo la sensazione che lui mi togliesse dalle labbra l’impronta stessa delle sue. Nonostante questo bacio, l’accaduto aveva lasciato tra noi un certo senso di gelo, e soffrivo terribilmente al pensiero che lui mi avesse visto colpevole d’un simile sotterfugio. Sì, ne era venuto a conoscenza soltanto dopo la mia franca confessione, ma ero ugualmente infelice come se avessi una macchia da cancellare. Né potevo non accorgermi del modo in cui mi guardava mentre parlavo dell’apparente indifferenza da lei mostrata per il suo mancato arrivo. Per la prima volta da quando lo conoscevo, egli sembrava aver manifestato un dubbio su ciò che dicevo. Prima che se ne andasse, gli assicurai che le avrei rivelato l’inganno: per prima cosa, la mattina dopo, sarei partita per Richmond e lì le avrei fatto sapere che lui era senza colpa. Lui, a queste parole, mi baciò ancora. Avrei espiato la mia colpa, gli dissi; mi sarei umiliata, e avrei confessato tutto e le avrei chiesto perdono. Lui allora, mi baciò ancora una volta.
V In treno, il giorno dopo, ripensai sconcertata al fatto che lui avesse acconsentito, ma la mia decisione era così ferma che mi lasciai guidare da essa. Salii la lunga collina da dove inizia il panorama, poi bussai alla sua porta. Restai un po’ perplessa nel vedere le serrande delle finestre ancora chiuse, e pensai che, se anche ero arrivata troppo presto sotto l’impulso del mio rimorso, comunque avevo lasciato alla gente di casa tutto il tempo necessario per alzarsi.
«In casa, dice? Ha lasciato la casa per sempre».
Rimasi visibilmente sconcertata a questo annuncio dell’anziana cameriera. «È uscita?» «È morta, signora, mi scusi». Poi, vedendomi senza fiato a queste terribili parole: «È morta la scorsa notte».
Il grido acuto che mi sfuggì suonò anche alle mie orecchie come una nota stonata in quel momento. Ebbi la sensazione, in quell’attimo, che fossi stata io a ucciderla; mi sentii svenire e attraverso una nebbia vidi la donna che tendeva le braccia verso di me. Di ciò che accadde dopo non ho ricordo, né di altro, dopo un intervallo che immagino molto breve, oltre che della povera, stupida cugina della mia amica, in una camera buia, che singhiozzava accanto a me in modo velatamente accusatorio. Non so dire quanto tempo impiegai per capire, per credere e poi per reprimere, con immenso sforzo, quel senso doloroso di colpa superstizioso, irrazionale, che inizialmente era stata l’unica sensazione di cui fossi consapevole. Il medico, dopo l’evento, era stato esemplarmente chiaro e categorico: gli era bastato addurre un’insufficienza cardiaca da tempo latente, determinata probabilmente, anni prima, dalle inquietudini e dalle angosce che il matrimonio le aveva procurato. C’erano state, in quei tempi, scenate furiose con suo marito, e lei aveva perfino temuto della vita. Ogni emozione, tutto ciò che poteva essere ansietà e preoccupazione, dovevano da allora essere attentamente evitate, e lei aveva mostrato d’esserne consapevole nella sua evidente dedizione a una vita tranquilla, ma com’era possibile che chiunque, soprattutto una vera signora, riuscisse a stare al riparo da ogni pur lieve turbamento? E uno di questi l’aveva avuto un giorno o due prima, nell’apprendere la notizia della morte di suo marito, poiché questi turbamenti potevano essere d’ogni genere, non soltanto di dolore o di sgomento. In quanto a questo, lei non aveva mai pensato a una liberazione così prossima: sembrava, stranamente, che lui dovesse vivere a lungo quanto lei. Poi, quella sera, aveva avuto evidentemente qualche disavventura in città dove doveva esserle capitato qualcosa che era assolutamente necessario chiarire. Era tornata a casa molto tardi, erano le undici passate, e incontrando nell’atrio la cugina, che era estremamente preoccupata, aveva ammesso che si sentiva stanca, che doveva riposarsi un attimo prima di salire le scale. Insieme erano passate in sala da pranzo, la cugina le aveva proposto un bicchiere di vino ed era accanto alla dispensa per versarglielo. Fu un attimo solo, e quando la mia informatrice si era voltata, la nostra povera amica non aveva fatto ancora in tempo a sedersi.
D’improvviso, con un lieve gemito appena percettibile, si era accasciata sul divano. Era morta. Quale ignoto lieve turbamento le aveva inferto il colpo? Quale emozione, in nome del cielo, l’aveva attesa in città? Accennai subito all’unico motivo immaginabile di turbamento: il mancato incontro in casa mia, dove lei era giunta alle cinque appunto a questo scopo, con l’uomo al quale io dovevo andare sposa, che casualmente aveva avuto un impedimento e che lei non conosceva ancora. Era una spiegazione evidentemente insufficiente; ma qualcos’altro poteva esserle capitato facilmente: niente era più possibile, per le strade di Londra, che un incidente, in particolare un incidente con quelle carrozze scatenate. Che cosa aveva fatto, dove era andata, dopo aver lasciato casa mia? Avevo dato per scontato che fosse tornata a casa direttamente. Ricordammo tutte e due, poco dopo, che talvolta, in queste sue escursioni in città, trascorreva un’ora o due, per suo piacere, per bere qualcosa, in un piccolo circolo femminile chiamato Gentlewomen, e promisi che sarebbe stata mia cura rivolgermi subito a quel locale. Poi entrammo nella penombra paurosa della stanza ove lei giaceva racchiusa nella morte, e lì, avendo chiesto dopo un po’ di essere lasciata sola con lei, rimasi per mezz’ora. La morte l’aveva presa, conservando la sua bellezza, ma sentii, soprattutto mentre ero inginocchiata al capezzale, che l’aveva racchiusa, le aveva imposto il silenzio. Aveva chiuso con la chiave qualcosa che anelavo conoscere.
Al mio ritorno da Richmond, e dopo aver sbrigato un altro compito, mi recai nell’appartamento di lui. Era la prima volta che lo visitavo, ma spesso avevo desiderato vederlo. Sulla scala, che in quella casa composta di venti appartamenti era aperta senza esclusione a tutti, incontrai il suo domestico, che tornò indietro con me e mi introdusse in casa. Udito il mio ingresso, egli apparve sulla soglia di un’altra stanza, e nel momento in cui restammo soli gli annunciai la notizia: «È morta!».
«Morta?» Rimase terribilmente colpito, e notai che, dopo quel crudele annuncio, non aveva bisogno di domandare a chi alludessi.
«È morta ieri sera, poco dopo avermi lasciata».
I suoi occhi fissi scrutavano i miei con stranissima espressione, come per scorgervi un trabocchetto. «Ieri sera, dopo averti lasciata?» ripeté stupefatto.
E poi disse ciò che udii a mia volta stupefatta: «Impossibile! Io l’ho vista!».
«Tu l’hai vista?» «Proprio lì, dove sei tu ora».
Questo mi richiamò alla memoria, dopo un attimo, come se mi aiutasse a accettare le sue parole il grande prodigio del presagio che egli aveva avuto in gioventù. Nell’ora della morte, capisco. Bella, come hai visto tua madre. «Ah, no, non come ho visto mia madre, non così, non così!» Era molto commosso dalla mia notizia, molto più commosso, evidentemente, di quanto sarebbe stato il giorno prima, e provai l’acuta sensazione che, come mi ero detta allora, ci fosse in effetti un rapporto tra loro e che lui si fosse trovato realmente faccia a faccia con lei. Questa idea, che riconfermava quella sua straordinaria prerogativa, avrebbe dato subito di lui l’immagine di un essere dolorosamente diverso, se egli non avesse sottolineato con tanta enfasi la differenza.
«L’ho vista in vita. L’ho vista, le ho parlato. L’ho vista come vedo te ora».
È strano che per un attimo, anche se soltanto per un attimo, trovai sollievo, tra questi due strani fenomeni, in quello che era il più personale, in qualche senso, ma anche il più naturale. Dell’altro aspetto, quando la immaginai che si recava da lui dopo avermi lasciata trovando così una spiegazione a come aveva impiegato il suo tempo, chiesi ragione a lui con una sfumatura di asprezza di cui ero consapevole: «E che cosa mai è venuta qui a fare?».
Aveva avuto un minuto di tempo per riflettere, per riprendersi e per valutare l’effetto delle sue parole così che, pur parlando ancora con espressione eccitata nello sguardo, diede mostra d’un consapevole rossore e tentò incongruamente di minimizzare con un sorriso la gravità delle sue parole. «È venuta semplicemente a vedermi. È venuta, dopo ciò che è successo in casa tua, così che potessimo, comunque, finalmente incontrarci. Mi è sembrato un gesto squisito ed è in questo senso che l’ho visto».
Mi guardai intorno per la stanza in cui lei era stata – in cui lei era stata e io non ero mai stata fino a quel momento. «E il modo in cui l’hai visto tu è stato anche il modo in cui te l’ha spiegato lei?» «Lei me l’ha spiegato semplicemente venendo qui e lasciando che la guardassi. Questo era sufficiente!» gridò con una risata insolita.
Io ero sempre più meravigliata. «Vuoi dire che non ti ha nemmeno parlato?» «Non ha detto nulla. È rimasta a guardarmi, così come io guardavo lei».
«E nemmeno tu hai parlato?» Mi rivolse ancora il suo doloroso sorriso.
«Pensavo a te. La situazione era delicata sotto ogni aspetto. Ho fatto uso del massimo tatto. Ma lei ha visto che mi aveva fatto piacere». Ripeté ancora la sua risata forzata.
«È evidente che ti ha fatto piacere!» Poi riflettei un attimo. «Quanto tempo è rimasta?» «Come posso dirlo? Mi è sembrato una ventina di minuti, ma probabilmente è stato molto meno».
«Venti minuti di silenzio!» Cominciavo ora ad avere una mia idea precisa e in realtà ad aggrapparmi ad essa. «Ti rendi conto che mi stai raccontando una cosa assolutamente mostruosa?» Era rimasto fino allora con la schiena rivolta al fuoco, e a queste parole, con un’espressione supplice, mi venne vicino. «Ti prego amore mio, prendila con dolcezza». Potevo prenderla con dolcezza, e glielo feci capire, ma non riuscii, quando lui un po’ goffamente aprì le sue braccia, a permettergli di stringermi a sé. E così cadde tra noi, per un certo tempo, l’imbarazzo di un profondo silenzio.
VI Fu lui a romperlo, dicendo poco dopo: «Non vi è assolutamente alcun dubbio della sua morte?».
«Nessuno, purtroppo. Ero poco fa inginocchiata al letto sul quale l’hanno messa a giacere».
Lui teneva gli occhi fissi a terra, poi li sollevò per volgerli verso i miei. «Che aspetto ha?» «Sembra… in pace».
Lui si allontanò di nuovo mentre lo guardavo, ma dopo un attimo soggiunse: «A quale ora, dunque…».
«Dev’essere stato vicino a mezzanotte. Si è accasciata quando è arrivata a casa sua… per un mal di cuore che lei sapeva di avere, del quale era a conoscenza anche il suo medico, ma del quale, serenamente, coraggiosamente, non ha mai parlato con me».
Rimase ad ascoltare attentamente e per qualche minuto non fu capace di parlare. Alla fine esclamò, con un tono del quale ho ancora nelle orecchie, mentre scrivo, la sicurezza quasi fanciullesca, la semplicità veramente sublime. «Era una donna meravigliosa!» Anche in quel momento riuscii a darmene ragione abbastanza per rispondergli che gliel’avevo sempre detto, ma dopo un attimo, come se quelle parole gli avessero fatto intuire il sentimento che poteva avermi fatto provare, si affrettò a soggiungere: «Capirai senz’altro che se non è tornata a casa fino a mezzanotte…» Lo ripresi immediatamente. «Hai avuto tutto il tempo possibile per vederla? Com’è possibile» domandai «se non sei uscito da casa mia fino a tardi? Non ricordo precisamente l’ora, ero molto preoccupata. Ma sai bene che, pur avendo detto di avere molto da fare, sei rimasto per un certo tempo dopo cena. Lei, dal canto suo, è rimasta tutta la sera al Gentlewomen. È proprio da lì che vengo, e mi sono accertata. Ha preso lì il tè, ed è rimasta molto, molto tempo».
«E che cosa ha fatto in tutto questo tempo?» Lo vedevo ansioso di contestare ogni punto della mia versione, e più lui lo manifestava più io ero indotta a insistere in questa versione, a preferire, con apparente perversità, una spiegazione che accresceva soltanto lo stupore e il mistero, ma che, tra i due prodigi da scegliere, la mia riaccesa gelosia trovava più facile da accettare. Lui continuò a perorare, con un candore che ora mi pare bellissimo, per affermare il suo privilegio di aver conosciuto in vita la donna; mentre io, con una passione di cui mi meraviglio tuttora anche se è ancora bruciante sotto le ceneri, potevo replicare soltanto che per uno strano dono che ella aveva in comune con la madre di lui e per parte sua aveva ugualmente ereditato, il prodigio della sua giovinezza si era ripetuto per lui, così come il prodigio vissuto da lei si era ripetuto per lei. Era stata da lui, certo, e con un gesto squisito, come lui diceva, ma non era stata certo in carne e ossa! Stavano semplicemente a dimostrarlo i fatti. Avevo avuto, ripetei, una sicura testimonianza di ciò che ella aveva fatto, per quasi tutto il tempo, nel suo piccolo circolo. Il locale era quasi deserto, ma gli inservienti avevano notato la sua presenza. Era rimasta immobile in una grande poltrona accanto al camino del soggiorno; poi aveva ripiegato la testa, aveva chiuso gli occhi, era sembrata dolcemente addormentarsi. «Capisco. Ma fino a che ora?» «Su questo punto» fui costretta a rispondere «gli inservienti non sono stati molto precisi. La custode, in particolare, è purtroppo una sciocca, anche se, a quanto pare, dovrebbe far parte pure lei del circolo. Evidentemente, in quel periodo della serata, si è assentata per un certo tempo, senza farsi sostituire, contro i regolamenti, dalla guardiola in cui ha il compito di controllare chi entra e chi esce. Faceva confusione, mentiva manifestamente e così, in base alle sue risposte, non posso indicare un’ora con sicurezza. Ma verso le dieci e mezzo è stato notato che la nostra povera amica non era più nel circolo».
L’orario coincideva perfettamente. «È venuta qui direttamente, e da qui è andata direttamente al treno».
«Non potrebbe aver fatto così in fretta» ribattei. «È una cosa che lei in particolare non ha mai fatto».
«Non aveva alcun bisogno di fare in fretta, mia cara: aveva tutto il tempo a disposizione. La memoria ti fa difetto quando dici che ti ho lasciata piuttosto tardi: in realtà, ti ho lasciata insolitamente presto. Se il tempo che ho trascorso con te ti è sembrato lungo mi dispiace, perché sono ritornato qui alle dieci».
«Per infilarti le pantofole» obiettai «e addormentarti nella tua poltrona. Hai dormito fino al mattino… l’hai vista in sogno!» Lui mi guardò in silenzio, con sguardo cupo, uno sguardo che mi rivelava l’irritazione che doveva reprimere. Poco dopo soggiunsi: «Hai ricevuto una visita, in un’ora inconsueta, da parte d’una signora, e sia: niente al mondo è più probabile. Ma ci sono signore e signore. Com’è possibile, in nome del cielo, se ella è giunta senza farsi annunciare ed è rimasta in silenzio, e per di più se tu non hai mai visto alcun suo ritratto, com’è possibile che tu abbia riconosciuto la persona di cui stiamo parlando?».
«Non ho forse udito a sazietà le sue descrizioni? Posso descrivertela in ogni particolare».
«Non farlo!» esclamai, con tanta immediatezza che lo feci ridere di nuovo. Mi imporporai a questa reazione, ma soggiunsi: «È stato il tuo domestico a introdurla?».
«No, non era qui: è sempre fuori quando c’è bisogno di lui. Una delle peculiarità di questa grande casa è che i diversi piani sono accessibili dalla porta della strada senza alcun controllo. Il mio domestico ha una relazione con una giovane che lavora nell’appartamento sopra a questo, e la scorsa sera ha avuto un convegno particolarmente lungo. Quando è fuori casa per questa faccenda, lascia dischiusa la porta esterna, sulle scale, in modo da poter sgattaiolare dentro senza far rumore. E così basta semplicemente spingere la porta. E lei l’ha spinta: ci voleva soltanto un po’ di coraggio».
«Un po’? Una tonnellata ce ne voleva! E ci voleva ogni sorta di impossibili calcoli!» «Bene, il coraggio l’aveva, i calcoli li ha fatti. Bada bene, non penserei mai di negare» soggiunse «che è stata una cosa davvero meravigliosa!» Qualcosa del suo tono mi impedì di replicargli avventatamente. Alla fine domandai: «Come ha fatto a sapere dove abiti?».
«Deve aver ricordato l’indirizzo sull’etichetta che hanno fortunatamente lasciata appiccicata alla cornice che ho fatto fare per la mia fotografia».
«E com’era vestita?» «A lutto, mia cara. Non una grande ostentazione di gramaglie, ma un nero semplice e uniforme. Sul cappello aveva tre piccole piume nere. Aveva un manicotto di astrakan. E vicino all’occhio sinistro» soggiunse «aveva una piccola cicatrice verticale».
Lo interruppi: «Il ricordo di una carezza di suo marito». Poi aggiunsi: «Come le sei stato vicino!». Lui non rispose nulla e mi parve arrossire, al che feci bruscamente per andarmene. «Bene, arrivederci».
«Non vuoi trattenerti ancora un po’?» Mi si avvicinò di nuovo con tenerezza, e questa volta glielo permisi. «La sua visita aveva una sua bellezza» mormorò tenendomi tra le braccia «ma la tua ne ha una maggiore».
Lasciai che mi baciasse, ma ricordai, come avevo ricordato il giorno precedente, che l’ultimo bacio da lei dato in questo mondo, come immaginavo, l’aveva posato sulle labbra che egli ora toccava. «Io sono viva, lo vedi» risposi «Quella che hai visto ieri sera era la morte!» «Era viva! Era viva!» Parlava con sommessa ostinazione, io mi scostai da lui. Rimanemmo a guardarci fissamente l’un l’altra. «Tu descrivi questa scena, per quanto la descrivi, in termini che non sono comprensibili. Lei è entrata nella stanza senza che tu te ne accorgessi?» «Ho alzato gli occhi dalla lettera che scrivevo, là a quel tavolo sotto la lampada, sulla quale ero interamente concentrato, e lei era lì, davanti a me».
«E allora che cosa hai fatto?» «Sono saltato in piedi con un’esclamazione e lei, con un sorriso, ha portato un dito alle labbra, come per ammonirmi, ma con una sorta di delicata dignità.
Capii che ciò voleva significare silenzio, ma la cosa strana era che il gesto sembrò immediatamente spiegare e giustificare la sua presenza. In ogni caso, rimanemmo lì per un certo tempo, come ti ho detto, non saprei dire quanto, faccia a faccia. Proprio come siamo qui ora noi due
».
«A fissarvi semplicemente negli occhi?» Lui scosse con impazienza il capo. «No! noi non ci fissiamo negli occhi!» «Sì, però stiamo parlando».
«Bene, anche noi stavamo… in un certo senso». Si smarrì allora nel ricordo.
«È stata una cosa amichevole, come ora». Sulla punta della lingua avevo una domanda, se questa era una spiegazione sufficiente, ma mi limitai invece a constatare che evidentemente non avevano fatto altro che guardarsi con reciproca ammirazione. Poi gli domandai se l’aveva riconosciuta immediatamente. «No» rispose «perché, naturalmente, non l’aspettavo, ma mi è venuto in mente, molto prima che se ne andasse, chi era… l’unica persona che ella poteva essere».
Riflettei un attimo. «E come se n’è andata, alla fine?» «Così, come è arrivata. La porta era aperta alle sue spalle e lei se n’è uscita».
«In fretta o lentamente?» «Piuttosto in fretta. Ma guardando dietro di sé» aggiunse con un sorriso.
«L’ho lasciata andare, perché sapevo perfettamente che dovevo lasciarle fare ciò che desiderava».
Detto ciò, si avvicinò di nuovo a me, tenendomi tra le braccia e cercando di convincermi, con tutta la galanteria del caso, che io ero una cosa ben diversa.
Avrei dato qualsiasi cosa per domandargli se l’aveva toccata, ma le parole rifiutavano di esprimersi: presentivo, fino alla minima inflessione del tono, come sarebbero suonate orribili e volgari. Dissi invece qualcos’altro, non ricordo esattamente che cosa, qualcosa di incerto e contorto che aveva lo scopo, abbastanza scoperto, di indurlo a dirmelo senza dover fare io la domanda. Ma lui non me lo disse; ripeté soltanto, come per lusingarmi e consolarmi, il senso della sua dichiarazione di qualche minuto prima, l’assicurazione che ella era stata davvero squisita, come del resto io avevo sempre ripetuto, ma che ero io la sua vera amica, e sua per sempre. Queste parole mi diedero lo spunto per ribadire, nello spirito della mia precedente replica, che io avevo quanto meno il merito di essere viva; e ciò provocò a sua volta in lui il guizzo di contraddizione che temevo. «Oh, se era viva! Lo era, lo era!» «Era morta, era morta!» affermai con vigore, con la determinazione che così doveva essere, tale da apparirmi ora quasi come grottesca. Ma il suono delle mie parole si era appena spento quando mi riempì improvvisamente d’orrore, e tutta la naturale emozione che il loro significato avrebbe suscitato in altre condizioni allora straripò. Fui sommersa dal ricordo del grande affetto che c’era stato ed era spento per sempre, del bene che le avevo voluto e della fiducia che avevo in lei. E nello stesso tempo ebbi la visione della solitaria bellezza della sua fine. «Se n’è andata, l’abbiamo perduta per sempre!» esclamai tra i singhiozzi.
«È esattamente ciò che provo io» esclamò lui, parlandomi con estrema dolcezza e stringendomi a sé per confortarmi. «Se n’è andata, l’abbiamo perduta per sempre: che cosa importa adesso?» Si chinò sopra di me e quando il suo viso sfiorò il mio non avrei saputo se era bagnato delle mie lacrime o delle sue.
VII Era mia teoria, e divenne mia convinzione, posso dire mio atteggiamento, che essi non si fossero mai incontrati , e per questo motivo ritenni giusto chiedergli di accompagnarmi ai suoi funerali. Lui acconsentì e mi fu vicino con modestia e tenerezza, e presupposi, anche se lui chiaramente non badava affatto a questo rischio, che la solennità dell’occasione, a cui erano presenti in gran parte le persone che li avevano conosciuti entrambi ed erano a conoscenza del lungo gioco avvenuto tra loro, sarebbe bastata a spogliare la sua presenza di ogni facile associazione. In quanto a ciò che era accaduto tra loro la sera della sua morte, ben poco ci dicemmo ancora; io inorridivo davanti a ogni prova concreta. In un caso o nell’altro, sarebbe stata una sfacciata intromissione. Lui, dal canto suo, non presentò nessuna prova a sostegno, nessuna, cioè, tranne una dichiarazione del custode della casa, una persona per sua stessa ammissione estremamente inattendibile e distratta, secondo la quale tra le dieci e mezzanotte addirittura tre signore vestite in nero erano entrate e uscite dalla casa. E questo non dimostrava ancora niente; né l’uno né l’altra sapeva che cosa dire di tre donne. Lui sapeva che io pensavo di aver tenuto conto di ogni minuto del tempo trascorso da lei, e lasciammo cadere la questione come se fosse risolta, evitando ulteriori discussioni. Una cosa io sapevo, però, che lui se ne asteneva per compiacermi, non perché si fosse arreso alle mie ragioni. Non si era arreso: era soltanto compiacente, e si aggrappava alla sua versione perché era questa che preferiva. E la preferiva, pensavo, perché faceva maggiormente appello alla sua vanità. Questo, se fossi stata al posto suo, non avrebbe avuto tale effetto su me, anche se io ne avevo indubbiamente altrettanta, ma queste sono cose individuali, sulle quali nessuno può giudicare in vece di un altro. Avrei pensato che fosse più gratificante essere protagonista di uno di quegli inesplicabili avvenimenti che sono raccontati nei libri del mistero o sono dibattuti in qualche dotto consesso; immaginavo da parte di una persona appena inghiottita nell’infinito eppure ancora vibrante di umani sentimenti, che niente avrebbe potuto trovare di più bello e puro, di più alto e sublime che un simile impulso di riparazione, di premonizione o perfino di curiosità.
Questo era bello, se si voleva, e al suo posto mi sarei sentita lusingata per esser così desiderata e prescelta. Era risaputo che già aveva avuto un’esperienza come quella, che da tempo egli era comparso in quella luce, e quel fatto che cos’era, in sé, se non qua si una prova? Ciascuna di quelle strane apparizioni contribuiva a avallare l’altra. Lui la vedeva in un modo diverso, ma aveva anche, mi affretto ad aggiungere, un manifesto desiderio di non farne un vanto o, come dicono, un caso Io potevo credere ciò che preferivo, tanto più che tutta la faccenda era, in un certo senso, opera mia. Era un episodio della mia vita, un dubbio della mia coscienza, non della sua e pertanto lui avrebbe assunto a quel proposito qualsiasi atteggiamento che a me fosse apparso conveniente. Avevamo tutti e due, in ogni caso, altri problemi davanti a noi: eravamo alle prese con i preparativi del nostro matrimonio.
Per quanto mi riguardava, erano problemi sicuramente urgenti, ma scoprii, col trascorrere dei giorni, che credere a ciò che preferivo significava credere a ciò di cui ero sempre più intimamente convinta. Mi accorsi anche che questo non mi piaceva poi tanto o che in ogni caso il piacere non era affatto la causa della mia convinzione. La mia ossessione, come in realtà posso chiamarla e quale cominciai a percepirla, non accettava di farsi accantonare, come io speravo, dalla coscienza delle mie incombenze più generali. Se molte cose avevo da fare, ancor più ne avevo da pensare, e venne il momento in cui le mie incombenze furono gravemente compromesse dai pensieri che avevo per la mente. Ora rivedo tutto, ho la sensazione di vivere tutto daccapo. È un momento terribilmente privo di gioia, pieno anzi di straripante amarezza, eppure devo rendere a me stessa giustizia: non sarei potuta essere diversa da quella che ero. Quelle stesse strane sensazioni, dovessi conoscerle di nuovo, produrrebbero la stessa angoscia profonda, gli stessi acuti dubbi, le stesse certezze ancora più acute.
Sì, è sempre più facile ricordare che scrivere, ma anche se riuscissi a rievocare quell’esperienza ora per ora, se riuscissi a trovare termini capaci di esprimere l’inesprimibile, sempre la sofferenza fermerebbe subito la mia mano.
Lasciatemi dunque ricordare, molto semplicemente e succintamente, che una settimana prima delle nostre nozze, tre settimane dopo la sua morte, capii fin nel mio intimo che avevo qualcosa di molto serio da affrontare e che, se dovevo fare questo sforzo, dovevo farlo subito, prima che trascorresse un’altra ora. La mia inestinguibile gelosia, questa era la maschera della Medusa. Non era morta con la morte di lei, le era lividamente sopravvissuta, ed era alimentata da sospetti inesprimibili. Sarebbero inesprimibili oggi, voglio dire, se non avessi sentito allora l’acuta necessità di esprimerli.
Una necessità che si impossessò di me, per salvarmi, sembrava, dal mio destino. E quando ciò accadde, vidi, nell’incalzare del tempo, nelle ore che mancavano alla scadenza, nell’attesa sempre più breve, che l’esito era uno solo, quello della più assoluta e pronta franchezza. Potevo almeno non fargli il torto di ritardare un altro giorno; potevo almeno aver sufficiente rispetto per la mia sofferenza da non ricorrere a sotterfugi. E così, molto pacatamente, ma nondimeno brutalmente e crudelmente, lo misi di fronte al fatto, una certa sera, che dovevamo riconsiderare la nostra situazione e riconoscere che era completamente modificata.
Lui mi guardò coraggiosamente negli occhi. «Come sarebbe a dire modificata?» «Un’altra persona si è posta tra noi».
Impiegò non più di un minuto a riflettere.
«Non fingerò di non sapere a chi alludi». Sorrise, compassionevole della mia aberrazione, ma con l’intenzione di essere gentile. «Una donna morta e sepolta!» «È sepolta, ma non morta. È morta per il mondo, è morta per me. Ma non è morta per te».
«Ti riferisci di nuovo alle diverse ipotesi che abbiamo fatto a proposito della sua apparizione di quella sera?» «No» risposi. «Non voglio riesumare niente. Non ne ho bisogno. Mi è più che sufficiente ciò che ho davanti agli occhi».
«E dimmi, tesoro, di che cosa si tratta?» «Sei cambiato completamente».
«Per quella cosa assurda?» replicò lui con una risata. «Non tanto per quella, quanto per le cose assurde che sono seguite».
«E quali sarebbero?» Eravamo uno davanti all’altra, lealmente, senza abbassare gli occhi, ma i suoi avevano una strana luce fioca, e la mia certezza si esaltò davanti al suo percettibile pallore.
«Vuoi dare davvero a credere» domandai «di non sapere quali siano?» «Mia cara bambina» replicò lui «tu le descrivi in modo un po’ troppo approssimativo!» Riflettei un attimo. «Può essere imbarazzante mettere a fuoco il quadro. Ma sotto questo punto di vista e, fin dall’inizio, che cos’è mai stato più imbarazzante della tua peculiarità?» Lui fece finta di non capire, una cosa che gli riusciva sempre magnificamente.
«La mia peculiarità?» «Quel tuo ben noto, particolare potere».
Scrollò le spalle con visibile insofferenza e gemette sprezzantemente. «Ah, quel mio particolare potere!» «Il tuo potere di accedere a forme di vita» proseguii con freddezza «il tuo accesso a impressioni, a apparizioni, a contatti che, nel bene o nel male, sono preclusi al resto di noi. Questo era in parte il motivo, agli inizi, del profondo interesse che destavi in me, uno dei motivi per cui ero incuriosita, per cui ero addirittura orgogliosa di conoscerti. Era un meraviglioso privilegio, ed è ancora un meraviglioso privilegio. Ma non potevo, naturalmente, prevedere allora come si sarebbe esercitato adesso, e anche se ne fossi stata in grado, non avrei potuto prevedere il modo straordinario in cui il suo effetto mi avrebbe interessata».
«Ma in nome di Dio» domandò lui in tono quasi supplichevole «a che cosa stai mai alludendo in modo così fantasioso?» Poi mentre io restavo in silenzio, cercando di trovare il tono adatto per replicare, «E come è che si esercita?» soggiunse «e in quale modo sei stata interessata dai suoi effetti?».
«Ti è mancata per cinque anni» risposi «ma adesso non ti manca mai. Stai recuperando il tempo perduto!» «Recuperando il tempo perduto?» Ora il suo volto pallido cominciava a imporporarsi.
«Tu la vedi… la vedi. La vedi ogni notte!» Lui rispose con una forte risata di scherno, ma io la sentii suonare falsa.
«Viene a trovarti, come è venuta quella sera» ripetei «dopo averci provato, si è accorta che le piaceva!» Riuscii a parlare, con l’aiuto di Dio, senza cieca passione o enfasi volgare, ma furono esattamente queste le parole che pronunciai, e a me apparvero allora tutt’altro che approssimative. Ridendo, lui si era voltato, battendo le mani nell’udire quella mia sortita, ma un attimo dopo era di nuovo di fronte a me, con una mutata espressione che mi impressionò. «Osi negare» domandai allora «che la vedi abitualmente?» Aveva assunto un atteggiamento indulgente, come per venirmi incontro e rabbonirmi dolcemente. Con mio sbalordimento, improvvisamente disse: «Bene, cara, e se così fosse?».
«È un tuo diritto naturale; è diritto della tua conformazione e della tua dote meravigliosa, anche se, forse, non molto invidiabile. Ma puoi facilmente capire che questo ci divide. Ti lascio incondizionatamente libero».
«Mi lasci libero?» «Devi scegliere tra me e lei».
Lui mi fissò intensamente. «Capisco». Poi si allontanò di qualche passo, come cercando di afferrare ciò che avevo detto e pensando al modo migliore per rispondere. Alla fine si voltò di nuovo verso di me. «Come fai a sapere una cosa così spaventosamente personale?» «Anche se ti sei tanto sforzato di nasconderla, vuoi dire? È vero, è una cosa spaventosamente personale, e puoi star certo che non ti tradirò mai. Hai fatto del tuo meglio, hai recitato la tua parte, ti sei comportato, povero caro, in modo leale e degno d’ammirazione. Di conseguenza, ti ho osservato in silenzio, recitando anch’io la mia parte; ho notato ogni inflessione della tua voce, ogni vuoto nel tuo sguardo, ogni sforzo compiuto senza darlo a vedere; ho atteso finché non sono stata assolutamente certa e desolatamente infelice.
Ma come potresti nasconderlo, se sei pazzamente innamorato di lei, se sei contagiato, quasi mortalmente direi, dalla gioia di ciò che ella ti dà?
» Anticipai il suo gesto di protesta con un gesto ancora più immediato. «Tu la ami come non hai mai amato, e passione per passione, lei ti contraccambia completamente! Una donna in un caso come il mio, intuisce, sente, vede: non è una stupida ottusa a cui raccontare favole credibili. Sei venuto a me meccanicamente, compuntamente, con ciò che resta della tua tenerezza e della tua stessa vita. Io posso rinunciare a te, ma non posso dividerti con nessuno: il meglio di te è suo, io lo so, e liberamente ti lascio a lei per sempre!» Tentò allora l’arma della galanteria, ma la situazione non poteva essere rappezzata: lui rinnovò i suoi dinieghi, ritrattò la sua ammissione, mise in ridicolo la mia accusa, della quale riconobbi io stessa l’assurdità indifendibile.
Non finsi, nemmeno per un attimo, che stessimo parlando di cose normali; non finsi, nemmeno per un attimo, che lui e lei fossero persone normali. Sì, se lo fossero state, come avrei mai potuto curarmi di loro? Avevano goduto di una rara estensione del loro essere, e in questo loro volo avevano trascinato anche me, ma io non potevo respirare in quell’atmosfera e chiedevo di essere riportata a terra. Tutto, in ciò che era avvenuto, era mostruoso, e più di tutto la mia lucida percezione di tutto quanto; l’unica cosa rimasta fedele alla natura e alla verità era la mia necessità di agire in base a tale percezione.
Dopo aver parlato in questo modo, sentii che la mia sicurezza era ora completa, e niente a essa mancava tranne l’impressione che aveva prodotto su lui. E questa impressione lui la celò dietro una cortina di sarcasmo, un espediente che serviva a fargli guadagnare tempo e a coprire la sua ritirata.
Mise in dubbio la mia sincerità, la mia integrità mentale, quasi la mia umanità, e questo naturalmente acuì la nostra frattura e confermò la nostra divisione. Fece di tutto, insomma, tranne che convincermi d’essermi sbagliata o di essere lui infelice: ci separammo e lo lasciai alla sua inconcepibile comunione.
Non si sposò mai, e nemmeno io. Sei anni dopo, quando nella solitudine e nel silenzio venni a sapere della sua morte, accolsi la notizia come una diretta conferma della mia teoria. Fu un evento improvviso, mai adeguatamente spiegato, circondato da circostanze, sì le ricostruii a una a una, in cui lessi chiaramente una deliberata intenzione, il segno della sua volontà segreta. Fu la conseguenza di una prolungata necessità, di un inestinguibile desiderio.
Per spiegare esattamente ciò che intendo dire, fu la risposta a una voce irresistibile che lo chiamava.

Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  The Friends of the Friends, 1896
  Il fantastico quotidiano
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