Parlo di me come giudice e so che sono colpevole. In quel turbine, da cui mi lasciai travolgere, benché fossi solo e senza una guida né un consigliere, giuro che ero perfettamente cosciente della mia caduta; per questo non sono scusabile. Ma intanto durante quei due mesi fui quasi felice. Perché quasi? Fui straordinariamente felice! A tal punto, che la coscienza stessa della mia onta, che mi balenava a tratti (in verità piuttosto spesso!) scuotendomi l’anima, ebbene volete credermi? – rendeva ancora più profonda la mia ebbrezza. Ebbene, se si deve cadere, cadrò; ma io non cadrò; saprò salvarmi! Ho la mia stella!. Camminavo su uno stretto ponticello di legno senza ringhiera, sopra un abisso e ne provavo allegria; ogni tanto davo perfino uno sguardo all’abisso. Il rischio mi dava allegria. E l’idea? L’idea verrà più tardi, l’idea aspettava; tutto ciò che era stato, era soltanto una deviazione: perché dunque non divertirsi? Ecco il difetto della mia idea, lo ripeto ancora una volta; questo suo ammettere ogni sorta di deviazioni; se fosse stata meno ferma, meno radicale, forse avrei temuto di deviarne.
Ho la mia stella!
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