Nella oscura savana i fuochi dell’accampamento brillano. Attorno al fuoco, unica protezione contro il freddo che scende, e dietro il fragile paravento di palme e di rami frettolosamente piantato dalla parte del vento o della pioggia, vicino alle gerle piene di povere cose che costituiscono tutti i loro beni terreni, coricati sulla nuda terra e insidiati da altre bande ugualmente ostili e timorose, gli sposi, strettamente allacciati, si considerano l’un l’altro sostegno, conforto, unico soccorso contro le difficoltà quotidiane e la trasognata malinconia che di tanto in tanto invade l’anima nambikwara. Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli Indiani, è preso dall’angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo dì questa umanità così totalmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la superficie di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui s’indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non s’interrompono al passaggio dello straniero. S’indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale, e, mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all’espressione più commovente della tenerezza umana.
I Nambikwara hanno pochi bambini: come in seguito dovevo notare, le coppie senza figli non sono rare, uno o due figli sono una cifra normale ed è eccezionale trovarne più di tre in una famiglia. I rapporti sessuali sono vietati fra i genitori finché l’ultimo nato non sia svezzato, cioè spesso fino al suo terzo anno. La madre porta abitualmente il bambino a cavalcioni sulla coscia, sostenuto da una larga bandoliera di corteccia o di cotone; oltre la gerla, le sarebbe impossibile portarne un secondo. Le esigenze della vita nomade, la loro povertà, impongono agli indigeni una grande prudenza; quando è necessario le donne non esitano a ricorrere a mezzi meccanici o a piante medicinali per procurarsi l’aborto. Tuttavia gli indigeni provano per i loro figli e manifestano nei loro confronti un vivissimo affetto, del tutto ricambiato. Ma questi sentimenti sono spesso mascherati dal nervosismo e dalla loro instabilità. Un ragazzetto soffre di indigestione; ha mal di testa, vomita, passa metà del tempo a lamentarsi e l’altra a dormire. Nessuno gli presta la minima attenzione e lo si lascia solo per tutto il giorno. La sera, sua madre gli si avvicina, lo spidocchia delicatamente mentre dorme, fa segno agli altri di non avvicinarsi e gli allestisce tra le braccia una specie di culla. Oppure, una giovane madre gioca col suo bebé dandogli delle leggere botte sulla schiena; il bambino ride ed ella si eccita talmente al giuoco che batte sempre più forte, fino a farlo piangere. Allora smette e lo consola. Ho visto la piccola orfana di cui ho già parlato, letteralmente calpestata durante una danza; nell’eccitazione generale era caduta senza che nessuno se ne accorgesse.
Consideriamo ora gli adulti. L’atteggiamento nambikwara verso l’amore si può riassumere in questa formula: tamindige mondage, tradotta letteralmente, se non elegantemente: far l’amore è bello. Ho già notato l’atmosfera erotica che impregna la vita quotidiana. Gli affari amorosi attirano al più alto grado l’interesse e la curiosità indigena; sono avidi di conversazioni su questo soggetto, e le osservazioni scambiate nell’accampamento sono piene di allusioni e di sottintesi. I rapporti sessuali hanno abitualmente luogo la notte, a volte presso i fuochi dell’accampamento; più spesso la coppia si allontana un centinaio di metri nella boscaglia vicina. Questa assenza viene subito notata con estrema soddisfazione dei presenti; si scambiano commenti, si lanciano spiritosaggini, e anche i bambini prendono parte a quell’eccitazione di cui conoscono benissimo la causa. […] Può accadere che una seconda coppia segua l’esempio della prima e cerchi l’isolamento nella macchia. Tuttavia queste occasioni sono rare e le proibizioni che le limitano spiegano solo parzialmente questo stato di cose. La responsabilità è piuttosto da attribuirsi al temperamento indigeno. Durante i giochi amorosi ai quali le coppie si abbandonano così volentieri e pubblicamente, e che sono spesso audaci, non ho mai notato un principio di erezione. Il piacere cercato sembra essere più sentimentale e giocoso che fisico.
Per quanto facili fossero i nambikwara – indifferenti alla presenza dell’etnografo, al suo taccuino e alla sua macchina fotografica – il lavoro risultava molto complicato da ragioni linguistiche. Anzitutto, l’uso dei nomi propri è loro interdetto; per identificare le persone si doveva seguire l’uso della gente della linea telegrafica, cioè convenire con gli indigeni nomi provvisori con i quali designarli. Sia nomi portoghesi, come Julio, Josè-Maria, Luiza; sia dei soprannomi: Lebre (lepre), Assucar (zucchero). Ne ho conosciuto uno che Rondon, o uno dei suoi compagni, avevano battezzato Cavaignac a causa della sua barbetta, rara presso gli indiani che sono generalmente glabri. Un giorno che giocavo con un gruppo di bambini, una delle bambine fu battuta da una compagna; essa venne a rifugiarsi accanto a me, e si mise, con gran mistero, a mormorarmi qualche cosa all’orecchio che io non compresi, e che fui obbligato a farle ripetere parecchie volte, tanto che l’avversaria scoprì il maneggio, e, furibonda, arrivò a rivelare a sua volta quel che sembrava essere un solenne segreto: dopo qualche esitazione e domanda, l’interpretazione dell’incidente non lascò alcun dubbio. La prima bambina era venuta, per vendetta, a dirmi il nome della sua nemica, e quando questa se ne accorse, comunicò il nome dell’altra, come rappresaglia.
Il primo e il principale strumento di potere [del capo] consiste nella sua generosità. La generosità è un attributo essenziale di potere presso la maggior parte dei popoli primitivi e specialmente in America; essa sostiene una parte anche in quelle culture elementari in cui tutti i beni si riducono a oggetti grossolani. Sebbene il capo non sembri godere di una situazione privilegiata dal punto di vista materiale, egli deve avere sotto mano delle riserve di cibo, d’utensili, di armi e di ornamenti che, pur essendo infimi, acquistano un valore considerevole a causa della generale povertà. Quando un individuo, una famiglia o una banda intera esprimono un desiderio o manifestano una necessità, fanno appello al capo per essere soddisfatti. Cosicché la generosità è la qualità essenziale che si richiede a un nuovo capo. È la corda, continuamente toccata, il cui suono armonioso o discordante determina la portata del consenso. Non ci sarà mai da dubitare che, a questo riguardo, le capacità del capo non siano sfruttate fino all’estremo. […] Questa avidità collettiva conduce spesso il capo alla disperazione. Il rifiuto di dare ha pressappoco il posto, in quella democrazia primitiva, della questione di fiducia in un parlamento moderno. Quando un capo arriva a dire: «Basta col dare! Basta con l’esser generoso! Che un altro lo sia al mio posto!» deve veramente essere sicuro del suo potere, perché il suo regno sta per attraversare, la più grave delle crisi.
Quanto a me, sono andato fino in capo al mondo in cerca di quel che Rousseau chiama «il progresso quasi insensibile degli inizi». Sotto il velo delle leggi troppo sapienti dei Caduvei e dei Bororo, avevo perseguito la mia ricerca di uno stato di cose che – dice ancora Rousseau «non esiste più, forse non è mai esistito, e probabilmente non esisterà mai e di cui ciononostante è necessario avere una giusta nozione per ben giudicare il nostro stato presente». Più fortunato di lui, credevo di averlo scoperto in una società agonizzante, ma della quale era inutile chiedersi se era o non era un relitto: tradizionale o degenerata, essa mi metteva comunque in presenza di una delle forme sociali e politiche più povere che si possa immaginare. Non avevo bisogno di rivolgermi alla storia particolare che l’aveva mantenuta in quella condizione elementare o che, più verosimilmente, ve l’aveva ricondotta. Bastava considerare l’esperienza sociologica che si svolgeva sotto i miei occhi. Ma proprio questa mi sfuggiva. Avevo cercato una società ridotta alla sua forma più semplice. Quella dei Nambikwara lo era a un punto tale che vi trovai solo degli uomini.
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