Vincent Van Gogh in quei giorni d’agosto del 1888 si trovava ad Arles. Era arrivato a febbraio, attratto dalla caratteristica luce che inondava quelle zone. L’estate, fino ad allora, era stata magnifica, molto più bella di quelle che aveva visto e vissuto più a nord. Le persone del posto invece si lamentavano perché il tempo non era più come una volta. Bastava che piovesse una mattina o un pomeriggio e finivano per ripetere quella cantilena. È cosí facile perdere la capacità di stupirsi per la bellezza che ci circonda. È cosí facile perdere il filo che ci lega alla meraviglia. A disturbare Vincent era solo il vento: il maestrale che da nord-ovest spirava verso sud. Con quel vento forte che non scemava mai, non c’era modo di tenere fermo il cavalletto. Ci aveva provato infinite volte a stabilizzarlo, inutilmente. Alla fine aveva capito che la soluzione era una soltanto: poggiare la tela a terra. Per dipingere, cosí, era costretto a inginocchiarsi. Chi lo vedeva in quella posizione, pensava che stesse pregando.
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