Allo stesso modo, infatti, con cui il volgo separa il fulmine dal suo brillare e prende quest’ultimo per un fare, per l’effetto di un soggetto, che chiama fulmine, così la morale del volgo distingue anche la forza dalle espressioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito esprimere forza oppure no. Ma non c’è un tale sostrato; non c’è alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; colui che fa non è che poeticamente aggiunto al fare – il fare è tutto. Il volgo in fondo duplica il fare, quando c’è il brillare del fulmine, questo è un far-fare: pone lo stesso evento una volta come causa, e poi un’altra volta come effetto di essa. I naturalisti non si comportano meglio, quando dicono la forza muove, la forza provoca e simili; – la nostra scienza, a dispetto di tutta la sua freddezza e libertà dagli affetti, sta ancora sotto la seduzione del linguaggio e non si è sbarazzata di questi fanciulli attribuiti falsamente, i soggetti (l’atomo per esempio è un tal fanciullo, parimenti la kantiana cosa in sé)
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