Avevo deciso di fingermi un altro, non nel senso di cambiare nome o connotati. O tutti e due; no, fingermi un altro «dentro».
Non pensavo a un suicidio psicologico, non intendevo cancellare la mia identità per sostituirla, pretendevo di mantenerla, ma di nasconderla; inventandomi, per convenienza, una natura diversa. Sì che gli altri, parlandomi, si riferissero a questa e non a me.
Avrei potuto fare di tutto, senza sentirne rimorso o vergogna.
Chi parla con te non sa mai chi sei: conosce un viso, un nome, anche un carattere, qualche pensiero, ma «chi» sei non lo sa; lo sai soltanto tu che dici «io» e ne hai coscienza perché guardi dalle finestre dei «tuoi» occhi, odori dai buchi del «tuo» naso; ma per gli altri questo «io» è un «lui» e un «lui» può essere chiunque.
Perché, allora — mi dicevo — non sfruttare questa impossibilità d’identificazione profonda, per sfuggire, non soltanto al male che gli altri potevano arrecarmi, ma anche a quello stesso che io potevo procurarmi per errore o incapacità?
Ecco, dunque, il tema: nascondersi dietro un altro che non esiste, reinventare sé stesso finto, per proteggere quello vero. Mostruoso? non più della vita che ci espone a continui travagli.
E, comunque, non si trattava di sembrare un altro agli altri, ma di sembrarlo a me stesso; ché, anzi, per il mondo dovevo continuare come se nessuna sostituzione o, meglio, sovrapposizione fosse mai avvenuta al mio interno.
Cominciava un’altra vita.
Avevo rimosso me stesso e sarebbe stato un altro a subire umiliazioni, dolori, delusioni al posto mio. E potevo cambiarlo, a seconda delle circostanze, con un altro ancora, con vari altri, quanti volevo. E diversi tra loro.
Condussi un’esistenza che il mondo giudicò scombinata e incoerente. E io, invece, stavo lì coerente ma irraggiungibile, ridacchiando nel mio nascondiglio per tanta invulnerabilità.
Continuavo il mio lavoro, conservavo la mia posizione sociale, i miei titoli; ma consentivo all’altro che mi rappresentava, tutte le libertà possibili.
Nei primi tempi le cose andarono felicemente. Il discredito che mi circondava non mi riguardava, addirittura mi divertiva.
Ma, poco alla volta, presi a mal sopportare questi altri che m’inventavo, con i quali convivevo e che non stimavo. Mi accorsi come non sia vero che la vergogna, la sofferenza, i sentimenti degli altri non ci tocchino. E mi accorsi che questi altri, che m’illudevo di controllare e dirigere, diventavano sempre più autonomi e padroni. Sentivo che, continuando, avrebbero fatto di me il loro burattino.
La corazza s’indeboliva, al punto che non mi distinguevo più dai fantasmi che avrebbero dovuto proteggermi. Dovevo liberarmene o non mi sarei più ritrovato. Ma non era quello che avevo voluto? No! avevo preteso di restar vivo, fingendomi morto. E non c’è, invece, finzione che duri così a lungo senza mutarsi in realtà.
Decisi di ritornare in me, prima che fosse tardi. Ma era tardi: non sapevo più chi ero. E non in senso universale. Chi siamo non c’è chi lo sappia o, se c’è, tace ostinatamente. No, io mi chiedevo, più semplicemente: sono un immorale, un cinico, un vigliacco, un coraggioso?
Sepolto da finzioni diverse, m’ero smarrito. Ricordavo tutte le vite vissute, ma non riuscivo più a distinguere quale fosse la mia, per potermela riprendere.
Né avrei risolto nulla a scegliermi la vita che più mi sentivo di vivere. Anche se il caso m’avesse portato a scegliere la mia; non saperlo, mi sarebbe costato vivere dubitando continuamente di me. «Essere sé stessi» non è un dato oggettivo, l’interessato deve esserne informato.
So io cosa significa cercarsi e non trovarsi. È come confidare i propri pensieri ad un estraneo. O come non sapere con chi conversare. O, nella migliore delle ipotesi, non sapere con «chi» si sta conversando. È come non avere mai la certezza di essere soli con sé stessi.
Nessuno può aiutarmi. E non lo chiedo a nessuno. Aspetto. Chissà che un giorno io non venga a trovarmi!
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