La Partenza
Magari è troppo presto, ma i sognatori, hanno sempre lo sguardo perso, sicuramente piacevole nei loro pensieri e sorridono… ma, anche se sono solo due righe con due soli sostantivi, l’emozione è sempre la stessa per il poeta.
Siamo nel periodo di un’attraversata atlantica su un mercantile, al suo ultimo viaggio, prima della rottamazione.
Il mercantile, in pratica, era stato venduto come ferrame ai cinesi, ma era in buono stato e ancora in servizio; per cui, prima di consegnarlo al cliente, hanno pensato bene di sfruttarlo, e farci un ultimo viaggio fino ad Anversa – in Belgio – proseguendo a ritroso, per Rotterdam – Olanda – e finalmente, ritorno.
Nel porto di Anversa, come in quello di Rotterdam, c’erano dei container vuoti in deposito nei loro grossi capannoni, ce n’erano tanti, da riempire completamente il mercantile, e dovevano essere trasportati al porto di Vzla, La Guaira. In questo viaggio, non erano previsti passeggeri – anche perché, non era la marina civile, ma il mercantile – ed io ero a bordo, per concessione fortuita, in quanto, dovevo andare in Europa; per cui, ero l’unico che viaggiava senza compiti da svolgere.
La cosa che di primo acchito mi ha fatto più impressione, è stata la maestosità dell’imbarcazione, infatti, non trasportando niente, gran parte dello scafo emergeva dal mare; invece, quando è stracarica di merce, pur navigando a filo d’acqua, la zavorra la abbassa: un po’ come navigano le petroliere nell’oceano, che a guardarle sembrano ferme. Viaggiando così, senza carico, si sente la variazione di gradi pur quando soffia qualche timido venticello, tanto che, un carpentiere a bordo, al suo primo viaggio in nave, non si tolse quasi mai il salvagente: aveva sempre la faccia desolata e sicuramente, era sotto effetto di qualche calmante.
A bordo, il comandante – per intransigenza legislativa – mi chiese direttamente il passaporto, che avrebbe custodito poi, nella cassaforte – dove c’erano altri documenti di vitale importanza – nell’eventuale caso, di un improbabile, ma non impossibile naufragio. In quel momento, quando lo consegnai e firmai sul libro dei presenti a bordo, persi la mia distinzione rispetto alle altre persone – la mia identità sociale – ero come gli altri e gli altri erano come me, tutti senza documenti – naufraghi prima del tempo, improbabile, ma non impossibile, naufragio. Io però, avevo con me “l’Asso nella Manica” non in caso di naufragio, naturalmente, e in tutti i sensi; in tal caso, ciò che avrebbe attestato la mia sfortunata identità, sarebbe stato quel Due di Cuori consegnato al comandante.
Il mio primo viaggio in nave – dove attraversammo il fosso dell’atlantico – risale a quando avevo sei anni, stavo tornando dalle vacanze in Italia, con i miei genitori e altri due fratelli, su di una nave passeggeri. Non potrei dire, quindi, di essere un veterano o un pendolare, eppure, quella mia esperienza di navigazione, mi dava la serenità necessaria, per dimenticare – per due settimane – il resto del mondo: questo, poteva naufragare su se stesso, non faceva testo per me, l’importante, era toccare con piede la destinazione.
Mi avevano dato una cabina notevolmente di lusso: oblò, letto, tavolino, armadio e, anche un piccolo lavandino, tutto intonato di un verde pallido e rosso cremisi- con tanto di servizio lavanderia e mensa dagli ufficiali – penso sia stata una cabina vacante di uno degli ufficiali che non era a bordo.
Un giorno, chiacchierando con un tenente, venni a sapere che era stato compagno di scuola di mio fratello; io però, non stavo spesso con gli ufficiali – nonostante questi, mi avessero invitato, visto che non avevo niente da fare – mi piaceva salire sul ponte, specialmente per sentire il silenzio radio quando s’incrociava una nave russa diretta a Cuba. Stavo volentieri con i marinai invece, i quali, catturavano il mio interesse, per i compiti che avevano da sbrigare: pistoni, albero motore, corde, pulegge, pompe, pulizie, manutenzioni varie. Il secondo giorno di navigazione, quindi, ho parlato con il capitano per chiedere se potevo cambiare di mensa, perché mangiare con i marinai, era più informale, più divertente; il greco poi – come ogni buon marinaio greco che si rispetti – aveva una buona scorta di anice di cui nessuno conosceva il nascondiglio, anche se poi, non era greco, il nome gli veniva dalla nomea di gran bevitore, anche perché, l’alcool lo reggeva alla grande.
La sera, con il bel tempo, ci si riuniva a poppa, sotto un grande terrazzo – dove si vedeva facilmente la schiuma che produceva le eliche – a suonare e cantare le melodie note di salsa o merengue; tra i marinai c’erano due ex integranti di una nota orchestra metropolitana, uno di loro, aveva una tromba. Io, che non conoscevo i testi, e non so manco cantare, non avevo né chitarra né armonica. Le melodie però, mi erano familiari, poiché erano molto diffuse in radio o negli eventi folcloristici, per cui, volendo partecipare, andai di corsa in cucina, presi due bottiglie di plastica con dentro una manciata di riso e le trasformai in maracas. Yo era el maraquero del grupo de borrachos que auyaba alla luna en medio dell’océano. Ero il suonatore di maracas del gruppo di ubriachi, che ululava alla luna in mezzo all’oceano… così, dicevano di me, poiché ero sbronzo dopo pochi sorsi di anice. Le maracas, sono rimaste sempre a poppa in un posto sicuro e noto, nel caso servissero in un’altra occasione, come difatti servì. L’ultimo giorno di viaggio, ho svuotato le bottiglie di plastica nelle chiuse del porto Antwerpen – o Antuerpia il suo primo nome – come pedaggio al gigante Druoon Antigoon, evitando così, che la mia mano fosse tagliata e buttata al fiume Schelde. Non a caso, il porto ha questo trucido nome.
Ogni due notti, si spegneva il motore, per evitare guasti, quindi, si passava la nottata alla deriva, sempre vigili gli ufficiali, ma alla deriva: anche perché così, si risparmiava un poco sul turno di notte dei marinai e non si pagava loro, il lavoro notturno in busta paga. La mattina alle cinque però, fatta la colazione, si accendeva il grosso motore diesel, si raddrizzava la prua verso la destinazione, e si proseguiva dolcemente, senza fretta, ma si avanzava, questo era il suo percorso.
Il mercantile, in pratica, era stato venduto come ferrame ai cinesi, ma era in buono stato e ancora in servizio; per cui, prima di consegnarlo al cliente, hanno pensato bene di sfruttarlo, e farci un ultimo viaggio fino ad Anversa – in Belgio – proseguendo a ritroso, per Rotterdam – Olanda – e finalmente, ritorno.
Nel porto di Anversa, come in quello di Rotterdam, c’erano dei container vuoti in deposito nei loro grossi capannoni, ce n’erano tanti, da riempire completamente il mercantile, e dovevano essere trasportati al porto di Vzla, La Guaira. In questo viaggio, non erano previsti passeggeri – anche perché, non era la marina civile, ma il mercantile – ed io ero a bordo, per concessione fortuita, in quanto, dovevo andare in Europa; per cui, ero l’unico che viaggiava senza compiti da svolgere.
La cosa che di primo acchito mi ha fatto più impressione, è stata la maestosità dell’imbarcazione, infatti, non trasportando niente, gran parte dello scafo emergeva dal mare; invece, quando è stracarica di merce, pur navigando a filo d’acqua, la zavorra la abbassa: un po’ come navigano le petroliere nell’oceano, che a guardarle sembrano ferme. Viaggiando così, senza carico, si sente la variazione di gradi pur quando soffia qualche timido venticello, tanto che, un carpentiere a bordo, al suo primo viaggio in nave, non si tolse quasi mai il salvagente: aveva sempre la faccia desolata e sicuramente, era sotto effetto di qualche calmante.
A bordo, il comandante – per intransigenza legislativa – mi chiese direttamente il passaporto, che avrebbe custodito poi, nella cassaforte – dove c’erano altri documenti di vitale importanza – nell’eventuale caso, di un improbabile, ma non impossibile naufragio. In quel momento, quando lo consegnai e firmai sul libro dei presenti a bordo, persi la mia distinzione rispetto alle altre persone – la mia identità sociale – ero come gli altri e gli altri erano come me, tutti senza documenti – naufraghi prima del tempo, improbabile, ma non impossibile, naufragio. Io però, avevo con me “l’Asso nella Manica” non in caso di naufragio, naturalmente, e in tutti i sensi; in tal caso, ciò che avrebbe attestato la mia sfortunata identità, sarebbe stato quel Due di Cuori consegnato al comandante.
Il mio primo viaggio in nave – dove attraversammo il fosso dell’atlantico – risale a quando avevo sei anni, stavo tornando dalle vacanze in Italia, con i miei genitori e altri due fratelli, su di una nave passeggeri. Non potrei dire, quindi, di essere un veterano o un pendolare, eppure, quella mia esperienza di navigazione, mi dava la serenità necessaria, per dimenticare – per due settimane – il resto del mondo: questo, poteva naufragare su se stesso, non faceva testo per me, l’importante, era toccare con piede la destinazione.
Mi avevano dato una cabina notevolmente di lusso: oblò, letto, tavolino, armadio e, anche un piccolo lavandino, tutto intonato di un verde pallido e rosso cremisi- con tanto di servizio lavanderia e mensa dagli ufficiali – penso sia stata una cabina vacante di uno degli ufficiali che non era a bordo.
Un giorno, chiacchierando con un tenente, venni a sapere che era stato compagno di scuola di mio fratello; io però, non stavo spesso con gli ufficiali – nonostante questi, mi avessero invitato, visto che non avevo niente da fare – mi piaceva salire sul ponte, specialmente per sentire il silenzio radio quando s’incrociava una nave russa diretta a Cuba. Stavo volentieri con i marinai invece, i quali, catturavano il mio interesse, per i compiti che avevano da sbrigare: pistoni, albero motore, corde, pulegge, pompe, pulizie, manutenzioni varie. Il secondo giorno di navigazione, quindi, ho parlato con il capitano per chiedere se potevo cambiare di mensa, perché mangiare con i marinai, era più informale, più divertente; il greco poi – come ogni buon marinaio greco che si rispetti – aveva una buona scorta di anice di cui nessuno conosceva il nascondiglio, anche se poi, non era greco, il nome gli veniva dalla nomea di gran bevitore, anche perché, l’alcool lo reggeva alla grande.
La sera, con il bel tempo, ci si riuniva a poppa, sotto un grande terrazzo – dove si vedeva facilmente la schiuma che produceva le eliche – a suonare e cantare le melodie note di salsa o merengue; tra i marinai c’erano due ex integranti di una nota orchestra metropolitana, uno di loro, aveva una tromba. Io, che non conoscevo i testi, e non so manco cantare, non avevo né chitarra né armonica. Le melodie però, mi erano familiari, poiché erano molto diffuse in radio o negli eventi folcloristici, per cui, volendo partecipare, andai di corsa in cucina, presi due bottiglie di plastica con dentro una manciata di riso e le trasformai in maracas. Yo era el maraquero del grupo de borrachos que auyaba alla luna en medio dell’océano. Ero il suonatore di maracas del gruppo di ubriachi, che ululava alla luna in mezzo all’oceano… così, dicevano di me, poiché ero sbronzo dopo pochi sorsi di anice. Le maracas, sono rimaste sempre a poppa in un posto sicuro e noto, nel caso servissero in un’altra occasione, come difatti servì. L’ultimo giorno di viaggio, ho svuotato le bottiglie di plastica nelle chiuse del porto Antwerpen – o Antuerpia il suo primo nome – come pedaggio al gigante Druoon Antigoon, evitando così, che la mia mano fosse tagliata e buttata al fiume Schelde. Non a caso, il porto ha questo trucido nome.
Ogni due notti, si spegneva il motore, per evitare guasti, quindi, si passava la nottata alla deriva, sempre vigili gli ufficiali, ma alla deriva: anche perché così, si risparmiava un poco sul turno di notte dei marinai e non si pagava loro, il lavoro notturno in busta paga. La mattina alle cinque però, fatta la colazione, si accendeva il grosso motore diesel, si raddrizzava la prua verso la destinazione, e si proseguiva dolcemente, senza fretta, ma si avanzava, questo era il suo percorso.
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