In alto mare

Finalmente! Come in tutte le storie di mare che si rispetti, ecco che scorgo un branco di delfini, e guarda caso, ci seguivano e cercavano di avvicinarsi. Alcuni ci riuscivano, poi si allontanavano; passavano qualche mezz’oretta nelle vicinanze, per sparire di nuovo e ricomparire dopo un paio d’ore, con lo stesso modo e sullo stesso lato del mercantile. E tutto questo durò per tre giorni e sempre nelle stesse ore: quindi, mi appostavo per vederli comparire da poppa – mi ero affezionato a loro – e, ogni volta, li osservavo mentre si esibivano nel loro essere ottimi nuotatori…non sono più tornati, spariti nelle profondità, in mezzo all’oceano, chissà dove e perché, senza un senso. Non trovando risposte, mi sono rassegnato, il mattino era quasi finito e il sole iniziava a farsi sentire sulla pelle, già parecchio abbronzata, per cui, avrei fatto bene a non toccare gli oggetti in metallo, già altre volte mi ero scottato. Mi appoggiai al parapetto, seguendo con lo sguardo la scia lasciata dalla nave sotto un forte vento, quando a un tratto, sentì come una voce giungermi da lontano, qualcuno mi stava chiamando. Il mio sguardo si diresse verso quella voce che proveniva dall’alto, quasi all’altezza del ponte e, mentre cercavo invano la fonte, in quel settore, avvistai i primi uccelli – le storie di mare, sono sempre uguali, da Odisseo in poi – uccelli piccoli, aldilà del ponte, quindi molto lontani, ma si vicini alle isole Azzorre. Ne ero sicuro, del resto, l’avevo vista sulla carta quando ero sul ponte; sapevo che mancava poco e che l’avremmo avvistata. Pensai che sarebbe stato bello fare una sosta lì e magari toccare terra ferma, dopo il salto del fosso atlantico, ma in fondo, non m’importava molto, era già di buon auspicio vedere quei piccolissimi uccelli che segnalavano le isole. Navigavamo nell’oscurità oceanica da una settimana, in solitudine, infatti, solo di rado, si vedevano luci rosse o verdi, secondo la direzione dei natanti nel nostro orizzonte; e a volte, usavamo i potenti fari, non come gli specchi ustori di Archimede per bruciare l’imbarcazione nemica, ma, per dialogare con l’intermittenza non regolare, in chiave morse. Mi sembrava una nave scuola, tutti sapevano leggere i segnali e commentavano per dare la risposta adeguata e sapevano come farsi capire; io no, a scuola avevo imparato solo a fare l’esse-o-esse, (• • • – – – • • •) ma si sapeva già che il bit, aveva la strada spianata, per destituire, e non solo questo sistema che è ancora in uso.
Sergio!, sento ancora più forte la voce che urla il mio nome. Ero già voltato, ma distratto dai miei pensieri, per cui, mi ripresi, e questa volta mi voltai nella direzione giusta, verso la porta laterale sinistra – usata come scorciatoia per arrivare in cucina e anche come punto di fuga se la cucina andava a fuoco – era Chávez, Saul Chávez, e non quello che sarebbe diventato, circa più di un decennio dopo, il terrore dei mercati. Saul, era l’uomo che ci nutriva, ci voleva bene a tutti e sapeva come accontentarci, aiutato da un’ottima memoria, tant’è, che ricordava persino i nostri nomi senza sbagliarsi. Era alto e tondo, abbastanza scuro di carnagione – molto probabilmente, per la costante e inclemente abbronzatura che ci si ritrova vivendo a bordo di una nave – una calvizie pronunciata e ben visibile quando non portava il berretto o il basco, sempre in camicetta senza maniche, pantaloncini corti e con il suo immancabile grembiule perfettamente bianco. Ogni volta che ero in cucina, lui mi dava buoni consigli, sia per la cucina sia per la permanenza a bordo, tanto per dirne una: cosa dovevo mangiare, nel caso il mare, fosse stato troppo mosso, e ogni tanto mi lasciava pure assaggiare ciò che stava cucinando, se vedeva che l’occhio mi cascava su qualche cibo particolare. Anche se la dispensa in cucina era tutta a sua disposizione e poteva mangiare quel che voleva, aveva il buon vizio di mangiare sempre il pesce fresco appena pescato: in cucina con una canna lunga, dalla finestra mentre cucinava o era in cucina, riusciva a prendere sempre del pesce per sé, ma di solito, chi si trovava vicino, specialmente il furbo tenente Ramirez, rimediava qualcosa di buono comunque. Saul, non poteva mai smettere di essere quello che era sempre stato e cioè un Pariacaca o dio preincaico dell’acqua, era un mito. ¡Coño Saul!, ¿Qué vaina es esa? Minchia Saul! Che cazzo è quello? – ciò che vedevo, era un pesce enorme della mia stessa altezza, se non più alto, non sapevo di che pesce si trattasse, ma era talmente grande, che c’è voluta la rete per tirarlo su; quella sera ci aspettava una cena succulenta, con una decina di chili di patate al forno e riso a volontà. Lui era visibilmente contento, ed io pensai che fosse per il grosso pesce catturato, perché, solo in quel punto, prima delle isole, poteva riuscirci, dopo, con le acque meno tiepide, sarebbe stato impossibile. La contentezza, però, non era tanto per quel grosso pesce pescato, in quanto, sempre lo aveva preso ogni volta che navigava in quelle coordinate, ma era per la difficoltà causatagli da un branco di delfini, che gli rendevano la pesca impossibile, sabotando ogni volta il suo intento. Le sue esche poi, costavano molto, erano la nostra riserva energetica, baccalà affumicato, che i delfini strappavano ormai con la cautela acquisita dall’amo; conoscevano bene a Pariacaca e lui sapeva chi erano loro, alla fine, gli hanno dato una tregua e, poco prima del termine del territorio idoneo per quella pesca, se ne sono andati indietro, magari, dietro a qualche altro mercantile che faceva uso dello stesso baccalà affumicato come esca. La preparazione del grosso pesce tenne occupato non solo Saul, ma anche Javier e Jaime, i due aiutanti cuochi. Ogni tanto, il buongustaio Ramirez, per il suo rango e per deformazione professionale, tentava di dirigere la preparazione, con quelle che erano sue idee, ma, non riusciva mai nel suo intento, perché alla fine, era Saul che decideva com’era meglio fare; del resto, con più di un decennio su quella rotta, quel tipo di pesce l’aveva fatto in tutte le salse immaginate e da immaginare. Ramirez era un apprendista, giovane e simpatico, ma a confronto, aveva ancora i denti da latte. Io davo una mano a tagliare le cipolle, un po’ più grosse di una palla da biliardo, che servivano per il riso; i piselli erano liofilizzati e si potevano prendere dal congelatore, anche a quasi fine cottura. Ogni tanto, la nave si muoveva come se sbandasse – il consistente vento quando colpiva lateralmente l’imbarcazione la faceva uscire leggermente dalla sua rotta – e gli ufficiali prontamente la raddrizzavano, per proseguire poi, manualmente; anche il mare era parecchio mosso, in verità, un po’ più del solito, noi eravamo abituati a questo movimento più forte, ma di solito, era di poca durata. Questa volta, invece, si protraeva, anche se leggero ma ostinatamente consistente, tanto che, non si poteva non pensarci, anche per il noioso piccolo disaggio d’instabilità sotto i piedi o sotto il sedere, quando si era seduti. Comunque, nonostante questo piccolo disagio, si pranzò, mangiando il giusto, quanto bastasse per sostenerci fino a cena; un pranzo austero e veloce, poiché, in quella giornata, ci aspettavano grandi fatiche, dovevamo far sì, che l’imbarcazione fosse in perfetto ordine, prima della possibile ispezione, nelle vicinanze del porto di Dover, cosicché, ognuno tornò alle proprie faccende, velocizzando per finire prima, e liberarsi delle incombenze.
Le Azzorre erano lì, a tiro di missile, non si vedevano ancora, ma nella serata si sarebbero viste le luci delle abitazioni e quelle dei lampioni per le strade, e magari con un potente cannocchiale, dal ponte, si poteva individuare qualche posto con degli esseri umani che camminavano. Il vento forte e costante, fin dal mattino, era riuscito ad accumulare grossi gruppi di nubi dietro di noi, ma davanti non era sereno, e il grigiore all’orizzonte non lasciava presagire niente di bello. Ormai, il movimento della leggera nave sopra quel mare increspato, lo avevamo somatizzato, era da mezzogiorno che non cessava di saltellare, come se si scivolasse su un’interminabile discesa sterrata con dei sassi irregolari, i piedi sopra una tavola, ma senza l’inclinazione della discesa; a volte il rimbalzo era più pronunciato ma niente di preoccupante, perché aveva già un suo definito ritmo con una sequenza prevedibile ma imperdonabilmente infinita.
Con un fischio Julio richiamò la mia attenzione, mi voltai verso di lui e mi fece con il braccio il gesto di avvicinarmi. ¿Qué quieres? Che vuoi? gli chiesi, mentre mi avvicinavo. Mi disse che c’erano tre mercantili e una nave militare a ore due, erano vicini tra loro ma erano troppo distanti da noi; riuscivo sì a vederli, ma il mio occhio faceva fatica a inquadrare bene le sagome, il movimento non proprio dolce della nave ostacolava l’impresa. Forse, andando sul ponte, sarei riuscito non solo a vederli meglio, ma anche a individuare con il radar, i ritmici bip che producevano il dispositivo a ogni giro di circonferenza del segnale sul monitor verde, dando così, la sensazione che tutto quello che lì si visualizzava, avesse la cognizione del vero. Non c’era tempo, già gran parte dei marinai non aspettava altro che la cena, prima che il mare diventasse più noioso, come di fatti si prevedeva. Ci siamo seduti a tavola, in quell’occasione ho desinato nella mensa degli ufficiali, anche perché Saul voleva che mangiassi lì, al suo piccolo tavolo a sei posti, e lui a capotavola; c’era inoltre, l’amico Ramirez davanti a me, José, il compagno di scuola di mio fratello a fianco a lui, e altri ufficiali, amici più stretti di Saul. Eravamo in un tavolo adiacente alla porta di cucina. Come sempre, gli aiutanti cuochi: Javier e Jaime, facevano anche da camerieri nella mensa degli ufficiali, con impeccabili divise, e quel Pariacaca di Saul, quella sera, dava una mano loro, per portare le vivande agli importanti commensali, vestito anche lui non dei soliti drappi. Javier e Jaime, avevano il loro un gran da fare, per mandare al primo piano, con il carrello elevatore, tutte le portate e coperchi; Jesús e Juán, invece, si occupavano di servire a tavola nella mensa di sotto. In un’occasione, da dove ero seduto, ho sentito la voce di Jesús che urlava nel canale dell’elevatore dalla mensa di sotto… ¡Mándame el pan, Jaime! Mandami il pane, Jaime e Jaime, richiamato dal buon Ramirez, andò in cucina e si affacciò al condotto… ¡Yo no soy Jesús, pajú’o! Non sono Gesù, segaiolo, dopo citofonò e gli disse di smetterla di fare l’imbecille perché gli ufficiali non gradiscono certi comportamenti.
Nel frattempo che desinavamo, il mare era diventato ancor più ostacolante per i nostri salutari propositi, ormai eravamo rassegnati, sentivamo quel sussulto nel corpo da più di dieci ore e si rischiava di non cenare più se il mare si fosse ingrossato ancora. Io tenevo il piatto con la mano e i bicchieri riuntiti tra di loro, al centro del tavolo, per formare un corpo più consistente; finalmente arrivò Saul al nostro tavolo e velocemente si servì – già, prima a lui e poi agli altri – delle belle e generose trance di quell’enorme pesce che fece una brutta fine nella mattinata. Ritornò poi in cucina per prendere qualche vassoio di patate arrosto, mentre Javier si apprestava a contornare le pietanze servite con un’abbondante razione di scioltissimo riso bianco; Jaime, invece, in sincronia con il suo collega, distribuiva diverse fette di tajadas, cioè platano – della famiglia delle banane- fritto a fette. Il mare non ci dava tregua, la nave continuava a saltellare tra le accidentate e solide onde, tanto che Saul, venendo dai fornelli, si dovette sorreggere con i gomiti all’ingresso della cucina per non perdere l’equilibrio, anche perché nelle mani aveva i vassoi strapieni di patate e non voleva farli cadere, rovinando così la cena, più di quanto non fosse riuscito a fare quel mare crespo. Mangiammo come meglio si poté, e insofferenti di ciò che accadeva all’esterno, si scherzava tra di noi, cercando qualcuno che si sentisse a disagio per deriderlo.
Ancora non pioveva quando finimmo di mangiare, eravamo in coperta a fumare, quando il cielo si oscurò rapidamente nell’arco del pomeriggio. A occidente, già i grossi ammassi di nubi non lasciavano filtrare tutta la luce propagata dal sole, e il suo tramonto avvenne dietro quelle preoccupanti nubi che, aiutate da grossi venti da ponente, erano catapultate nella nostra direzione, sulla nostra rotta. Nubi ancora in lontananza, tra noi e loro c’era parecchio mare di mezzo e il cielo era discretamente blu, quasi sgombro di nuvole e non come a levante – dove ci stavamo dirigendo – che già le nuvole avevano preso possesso dei cieli circostanti e, consolidandosi, si urtavano, scatenando lunghe e luminose scintille di luce, insaziabilmente inghiottite dall’oceano. Sopra di noi prevaleva la calma, ma non era destinata a durare; non pioveva ancora è vero, ma davanti a noi, all’orizzonte, o le nubi erano appoggiate sul mare – cosa improbabile – o era un banco di una mirabile pioggia, che lì sostava, accompagnata da luminescenze elettriche, lampi senza tuoni, molto lontani per essere percepiti sonoramente, e l’oceano inghiottiva anche questi suoni. Sotto di noi, invece, persisteva la continua smossa della piattaforma e quando riuscivamo a sopportare la sua intensità, subito dopo, aumentava, per obbligarci di nuovo e malvolentieri ad abituarci alla nuova e alla prossima. La grandiosa e abbondante cena la digerimmo, facendoci involontariamente shakerare dal mare: in piedi si stava male, a sedere peggio. La suonata prevista al passaggio delle Azzorre, fu rimandata; vedevamo le sue luci molto lontane sulla sinistra, come una striscia di luce che, galleggiando sopra l’acqua a intermittenza, ci regalava degli accostamenti di colori dalle inscrutabili combinazioni. Era solo questo il motivo, per cui stavamo lì a osservare, ma, inesplicabilmente non si vedevano altre imbarcazioni, eppure ci dovevano essere, solo dopo un’oretta ne apparve una, che non le abbiamo dato il tempo di avvicinarsi e già eravamo a letto, ognuno per conto suo, sperando che al mattino seguente passasse quella noia che iniziava a essere anche intestinale. Disteso sul letto, per tutta la notte non ho fatto altro che sussultare, la cabina sobbalzava come se in quella accanto si stessero servendo di un martello pneumatico, senza alcun rumore, ma lo sbalzo era quello. La stanchezza, il disagio, il sonno prese corpo; ero rassicurato però, per l’ottimismo con cui l’avevano presa gli altri, e così, riuscii a dormire ma non a riposare.