Il mio dolce padreCon un concerto di stoviglie e di pentole, e in sottofondo le canzoni della radio e le scoperte della piccola Nanette Vitamine nella trasmissione sponsorizzata dal cacao Banania, la mattina mi sveglio e scendo in cucina. È lui che trovo, intento a lavare i piatti della sera prima. Mi prepara la colazione. Mi accompagna a scuola. Cucinerà anche il pranzo. Nel pomeriggio spaccherà la legna in cortile o filerà in giardino con la vanga in spalla. Per me non cambia nulla, ai miei occhi è sempre lo stesso uomo, tranquillo, svagato, sia quando è impegnato a pelar patate facendosi volteggiare tra le dita le lunghe spirali delle bucce, sia quando affumica i «gendarmi» sulla brace e il fumo ci irrita gli occhi, o ancora quando mi insegna a fischiare mentre pianta i porri nell’orto. Una presenza costante, serena e affidabile. Rispetto agli operai del quartiere, ai commessi viaggiatori che trascorrevano tutta la giornata lontani da casa, avevo la sensazione che mio padre fosse sempre in vacanza, e a me stava più che bene. Quando le mie compagne si indispettivano perché era troppo freddo per giocare a campana in cortile io potevo starmene con lui dentro il bar a fare partite a domino o al gioco dei cavallini. In primavera gli faccio compagnia nell’orto, la sua passione. Lui mi insegna i nomi buffi delle verdure, la cipolla a tunica gialla di Vertus e la lattuga cappuccio bionda ballerina, io lo aiuto a tendere le corde sopra il terreno dissodato. Insieme facciamo merenda con salumi e ravanelli neri, e alla fine capovolgiamo il piatto per mangiarci una mela cotta. Di sabato lo guardo ammazzare il coniglio, svuotargli la vescica premendogli sul ventre ancora morbido, e poi scuoiarlo con il rumore secco che fa la stoffa vecchia quando si strappa. Papà-chioccia che accorre preoccupato se mi sbuccio un ginocchio, che mi va a comprare le medicine e che, per la varicella, la rosolia, la pertosse, passerà ore al mio capezzale leggendomi Piccole donne o giocando all’impiccato. Papà-bambino, «sei più scemo tu di lei», dice mia madre. Sempre pronto a portarmi alla fiera, a vedere i film di Fernandel, a fabbricarmi trampoli e a farmi sbellicare insegnandomi le espressioni popolari di prima della guerra, sacripante, culaccino, e altre che ho dimenticato. Papà indispensabile per portarmi a scuola e venirmi a prendere a pranzo e nel pomeriggio, in piedi accanto alla bici, un po’ in disparte rispetto alla folla di madri in attesa, l’orlo dei pantaloni stretto da una molletta. In pensiero al minimo ritardo. In seguito, quando sarò abbastanza grande per andare in giro da sola, lo troverò a sbirciare fuori dalla finestra aspettando il mio ritorno. Un padre già in là con gli anni, meravigliato di avere una figlia. Nella luce ocra dei ricordi, lo vedo attraversare il cortile, il capo chino per ripararsi dal sole, un cestino tra le braccia. Ho quattro anni, è lui che mi insegna a infilarmi il cappotto tenendo le maniche del maglione strette nel pugno per evitare che mi si arrotolino fino alle spalle. Sono tutte immagini di dolcezza e premura. Non ne so nulla di capifamiglia distaccati e solenni, la cui parola è legge, irascibili tiranni domestici, eroi di guerra o del lavoro: io sono la figlia di quell’uomo là.
E di Edipo non so che farmene.

Crediti
 Annie Ernaux
 La donna gelata
  Traduzione di Lorenzo Flabbi
 SchieleArt •   • 



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